L’invasione sovietica dell’Afghanistan

Quarant'anni fa iniziò uno dei conflitti dalle conseguenze più vaste dai tempi della Seconda guerra mondiale: e in un certo senso non è ancora finito

di Davide Maria De Luca

(AP PHOTO)
(AP PHOTO)

La sera del 27 dicembre 1979 il presidente della repubblica socialista dell’Afghanistan, Hafizullah Amin, stava cenando nel suo sontuoso palazzo presidenziale quando i suoi ospiti iniziarono a sentirsi male. Uno dopo l’altro si accasciarono sulle sedie. Prima di aver il tempo di reagire, lo stesso Amin crollò con la testa nel piatto dove aveva mangiato fino a pochi istanti prima. La cena era stata avvelenata, e solo l’intervento di un medico russo salvò la vita al presidente dell’Afghanistan.

Poche ore dopo Amin si stava ancora riprendendo dagli effetti della tossina quando i suoi assistenti lo avvertirono che il palazzo era sotto attacco. Amin uscì dalla sua stanza in mutande e con una flebo attaccata a un braccio. «I sovietici ci aiuteranno», disse lui. Proprio in quel momento le forze speciali sovietiche, tra cui una squadra di specialisti del KGB, il servizio segreto russo che aveva appena cercato di avvelenarlo per la seconda volta, si stavano contendendo il palazzo con la sua guardia presidenziale. Circa un’ora dopo l’inizio dei combattimenti, Amin venne ucciso, in circostanze mai del tutto chiarite.

L’attacco al palazzo presidenziale di Amin e il contemporaneo colpo di stato con cui l’esercito sovietico occupò Kabul segnarono l’inizio dell’invasione sovietica dall’Afghanistan, un conflitto che sarebbe durato per un decennio, costando la vita a centinaia di migliaia di persone, soprattutto afgani.

Per l’Unione Sovietica fu l’ultima grande avventura internazionale prima della sua caduta, e segnò una generazione di suoi abitanti in maniera non così diversa da come la guerra del Vietnam aveva segnato gli Stati Uniti. Seicentomila soldati russi – gli afgantsy, come vennero soprannominati – prestarono servizio nel paese, e migliaia di famiglie dovettero fare i conti con le loro menomazioni fisiche e morali quando i militari tornarono nel loro paese.

Ma le conseguenze più crudeli dell’invasione sovietica si produssero sull’Afghanistan. Fino agli anni Settanta, l’Afghanistan era stato un paese povero ma stabile, una remota area di frontiera da tempo dimenticata dalle grandi potenze. I dieci anni di occupazione sovietica lo cambiarono profondamente e lo trasformarono in una nazione traumatizzata e ferita, divisa da una guerra civile che sarebbe terminata soltanto con l’ascesa del brutale regime dei talebani, gli “studenti del Corano” guidati dal Mullah Omar. Furono i talebani a dare ospitalità e sostegno ad al Qaida, allora l’organizzazione terroristica più potente al mondo, e al suo leader, Osama bin Laden, che dall’Afghanistan organizzò e coordinò l’attacco alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre 2001.

In risposta a quell’attacco, una coalizione guidata dagli Stati Uniti invase il paese, riattivando una guerra civile che dura ancora oggi.

La notte del 27 dicembre 1979 nessuno immaginava che quel colpo di mano avrebbe avuto tante conseguenze e così ramificate. I sovietici pensavano che il loro impegno in Afghanistan sarebbe stato breve.

Il paese era da decenni un loro alleato, le città afgane brulicavano di consiglieri militari e civili sovietici e gli ufficiali afgani erano stati quasi tutti addestrati nelle accademie sovietiche, tanto che molti di loro parlavano russo. Il presidente Amin era comunista e lui stesso aveva chiesto l’intervento sovietico per sconfiggere un’insurrezione scoppiata nel paese. La risposta dei leader sovietici inizialmente era stata negativa. Nelle riunioni del Politburo, alla presenza dell’ottuagenario leader Brezhnev, i notabili sovietici dissero – correttamente – che inviare truppe in Afghanistan avrebbe inevitabilmente alimentato l’insurrezione, creato tensioni internazionali e, alla fine, il paese sarebbe diventato per loro una sorta di Vietnam. Ma nel giro di poco tempo la situazione gli sfuggì di mano.

Il leader sovietico Nikita Kruschev mentre nel 1955 passa in rivista la Guardia presidenziale afgana (che indossa vecchi elmetti del tipo usato dai tedeschi nella Seconda guerra mondiale) (AP PHOTO)

I comunisti afgani, arrivati al potere nel 1978 con un colpo di stato, erano incontrollabili. I sovietici avevano suggerito di consolidare gradualmente il loro potere, tenendo conto della natura rurale e tradizionale di gran parte del paese, ma loro, guidati da Amin, non sembravano avere l’intenzione di temporeggiare: dove i governi precedenti avevano fallito nel modernizzare l’Afghanistan, i comunisti intendevano riuscirci con la forza.

Nel corso dei venti mesi di governo di Amin, si calcola che più di 20 mila persone siano state uccise. Moltissime appartenevano allo stesso Partito Comunista, sottoposto da Amin e dai suoi colleghi a feroci e periodiche purghe. A chi gli consigliava un approccio graduale, Amin mostrava il ritratto di Stalin che teneva in un ufficio e ricordava che l’unico modo di modernizzare un paese arretrato era usare la stessa implacabile ferocia applicata su tutto il territorio sovietico.

Questi metodi brutali produssero reazioni altrettanto brutali. Le prime insurrezioni, sostenute dal vicino Pakistan, iniziarono già nel 1978: presto la seconda città del paese, Herat, rischiò di finire nelle mani dei ribelli. L’insurrezione venne repressa senza bisogno dell’intervento sovietico, ma i comunisti afgani sentivano il loro potere traballare e continuarono a chiedere l’aiuto dei russi. La decisione di intervenire non arrivò immediatamente, ha raccontato lo storico e diplomatico britannico Rodric Braithwaite, a lungo in servizio a Mosca negli anni Ottanta e Novanta e autore di Afgantsy, uno dei più importanti libri in inglese sulla guerra in Afghanistan dal punto di vista dell’Unione Sovietica.

Secondo la ricostruzione di Braithwaite, che ha potuto intervistare molti dei protagonisti di quei giorni e ha consultato a lungo gli archivi, l’Unione Sovietica, memore della lezione del Vietnam, cercò fino all’ultimo di rimanerne fuori, ma poi dovette cedere.

Per tutto il 1979 i sovietici inviarono crescenti aiuti al governo di Amin e ammassarono truppe ai confini con l’Afghanistan. Con ogni probabilità, racconta Braithwaite, l’ultimo passo si dovette allo stesso Amin quando nell’ottobre del 1979 fece assassinare il presidente afgano, Nur Muhammad Taraki, il leader locale più vicino a Mosca. Per i sovietici fu uno smacco. Non solo non erano riusciti a influenzare la politica afgana, ma ora tutto il potere era concentrato nelle mani di Amin, considerato un leader sanguinario e inaffidabile.

La data con cui in genere si fa coincidere l’inizio dell’invasione è il 25 dicembre del 1979, il giorno in cui gli enormi aerei da trasporto sovietici carichi di soldati iniziarono ad atterrare nella base aerea di Bagram, poco lontano da Kabul. In quel momento Amin era ancora convinto che i sovietici fossero suoi alleati e accolse con gioia il loro arrivo: finalmente le sue richieste di aiuto erano state ascoltate.

La mattina del 26 dicembre iniziarono ad arrivare le truppe di terra, salutate dalle guardie di frontiera e accolte da grandi festeggiamenti. Tanto i sovietici quanto gli afgani erano convinti che le truppe se ne sarebbero andate presto.

I sovietici avevano in mente una rapida operazione di contro-insurrezione e un’altrettanto rapida e il più possibile indolore sostituzione di Amin. All’aeroporto di Bagram era arrivato insieme alle truppe anche il leader di una fazione esiliata del Partito Comunista Afgano, pronto a sostituire il governo di Amin, mentre a Kabul le truppe si preparavano a prendere il controllo dei punti strategici della città. L’operazione più importante, per catturare o eliminare Amin, era anche la più delicata.

Temendo che i suoi rivali afgani o gli insorti volessero ucciderlo, pochi giorni prima dell’attacco Amin si era stabilito nel Palazzo Tajbeg, un imponente edificio costruito in stile neoclassico sulla cima di una collina poco fuori Kabul. Dal palazzo si godeva di un’eccellente visuale sull’area circostante e le sue difese erano state rafforzate. Duemila soldati della guardia presidenziale sorvegliavano con mitragliatrici e mortai l’unica via d’accesso al palazzo che non era stata minata.

Le rovine del Palazzo Tajbeg sulla cima della collina, fotograte nel 2012 (aka4ajax/Wikimedia)

Nella più antica delle tradizioni militari sovietiche, i comandanti sul posto decisero di attaccare il palazzo con un assalto diretto di fanteria. Settecento uomini furono scelti per l’attacco, di cui cinquecento provenienti dal “battaglione islamico”, un’unità speciale composta da uomini dalle repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale, di religione musulmana e dove si parlavano lingue simili a quelle parlate in Afghanistan. Gli altri provenivano da un battaglione scelto di paracadutisti e dalle unità speciali del KGB Alpha e Zeniht. Per quasi tutti i militari, era la prima azione della loro vita.

L’assalto fu brutale e i combattimenti accaniti. I sovietici guidarono i loro mezzi blindati dritti contro le difese afgane e poi combatterono metro per metro nei corridoi del palazzo. Per cercare di ingannare i difensori, i soldati russi avevano indossato uniformi dell’esercito afgano, che ricordavano le vecchie uniformi sovietiche della Seconda guerra mondiale, mentre i difensori della guardia presidenziale indossavano vecchi elmetti acquistati in precedenza dalla Germania.

Circondato da quelle uniformi, mentre combatteva intorno allo scalone di marmo del palazzo, si dice che un soldato russo disse di sentirsi come durante l’assalto al Reichstag di Berlino nel 1945. Lo scontro fu durissimo e quattordici soldati sovietici, tra cui il loro comandante, furono uccisi nell’operazione. Quasi tutti i militari coinvolti subirono qualche ferita. Duecento soldati afgani furono uccisi e fu ucciso anche Amin, anche se non è mai stato chiarito se fu colpa del fuoco incrociato oppure di un suo rivale afgano che aveva accompagnato l’operazione per riconoscerlo. Non è mai stato chiarito nemmeno se la squadra d’assalto fosse stata informata che quel giorno un agente del KGB avrebbe cercato di avvelenare Amin, rendendo superfluo l’attacco.

È noto invece quello che avvenne dopo. Il 28 dicembre il nuovo leader dell’Afghanistan, Babrak Karmal, sostenuto dai sovietici, annunciò via radio che la “macchina della tortura di Amin” era stata distrutta e che il paese si avviava verso una nuova epoca di pace e prosperità. In realtà iniziò un’occupazione brutale che durò fino al 1989.

Anche se i sovietici non subirono mai una vera e propria sconfitta militare (proprio come gli americani in Vietnam), allo stesso tempo non riuscirono mai a domare l’insurrezione. I mujaheddin, come venivano chiamati gli insorti, si dimostrarono guerriglieri abili e coraggiosi, esperti del terreno e sempre capaci di scomparire nelle montagne dopo aver compiuto un attacco.

Alcuni soldati sovietici trasportano una cassa durante gli ultimi giorni del ritiro sovietico dall’Afghanistan, nell’ottobre del 1989 (AP Photo/Liu Heung Shing)

I mujaheddin non furono mai un fronte unito, e per tutto il conflitto continuarono a restare divisi, scontrandosi spesso tra di loro. Non appena i sovietici si ritirarono, le loro rivalità si trasformarono in un conflitto aperto, che al paese e alle sue città inflisse danni persino maggiori dell’occupazione russa.

Questa seconda fase del conflitto produsse molti personaggi entrati nella storia dell’Afghanistan e, presto, di quella del resto del mondo: per esempio Mohammad Najibullah, l’ultimo presidente comunista dell’Afghanistan, che si distinse dai suoi predecessori per aver interrotto le pratiche più brutali del regime e aver tentato un’opera di riconciliazione nazionale. Quando i russi lasciarono il paese e i ribelli occuparono Kabul, Najibullah si dimise e si rifugiò nella base delle Nazioni Unite. Lì visse tra il 1992 e il 1996, traducendo in pashtu, la lingua più parlata in Afghanistan, Il Grande Gioco di Peter Hopkirk, uno dei più celebri libri sul paese, che racconta la lunga rivalità tra impero britannico e Russia zarista per il dominio del territorio afgano.

Najibullah fu torturato e ucciso insieme a suo fratello quando nel 1996 i talebani occuparono Kabul. Oggi Najibullah è uno dei protagonisti di un popolare spettacolo teatrale dedicato alla storia dell’Afghanistan.

Molti altri personaggi divenuti famosi durante la guerra hanno continuato ad avere un ruolo determinante nell’Afghanistan contemporaneo.

Gulbuddin Hekmatyar, che negli anni Settanta aveva fondato un partito radicale islamico, divenne uno dei principali leader della guerriglia antisovietica, ricevendo ampi sostegni dai paesi arabi e dal Pakistan, che apprezzavano le sue vedute religiose. Non entrò a far parte del governo talebano, ma dal 2011 al 2016 combatté insieme ai talebani contro il governo afgano e l’esercito americano.

Un altro popolare mujaheddin, Jalaluddin Haqqani, divenne famoso per il vasto sostegno ricevuto dalla CIA e per essere stato definito “la bontà fatta persona” dal deputato statunitense Charlie Wilson, quello interpretato da Tom Hanks in un popolare film scritto da Aaron Sorkin. Dopo la fine dell’invasione sovietica, Haqqani divenne un importante e spietato miliziano radicale, accusato di aver compiuto una pulizia etnica nell’area abitata dalla minoranza di lingua tajika. Haqqani è morto nel 2018 ma la sua organizzazione, la Rete Haqqani, è rimasta alleata dei talebani e molto vicina ad al Qaida ed è ancora impegnata nel conflitto contro il governo afgano e l’esercito degli Stati Uniti.

Il più famoso di tutti i mujaheddin che si fecero le ossa durante il conflitto afgano rimane probabilmente Ahmad Shah Massoud, il “Leone del Panshir”, dal nome della valle che difese per oltre due decenni prima dai sovietici e poi dai talebani.

Islamista moderato, colto e affascinante, appartenente alla minoranza tajika, Massoud fu uno dei personaggi che più hanno colpito l’opinione pubblica occidentale ed è ricordato come un martire e un eroe anche in Afghanistan. A lungo trascurato durante l’invasione sovietica, poiché i servizi segreti pakistani che intermediavano i soldi della CIA e dei paesi arabi preferivano finanziare leader più estremisti come Haqqani ed Hekmatyar, Massoud fu l’unico tra i grandi comandanti a opporsi con successo ai talebani.

Proprio per questo il Mullah Omar, leader dei talebani, affidò ad al Qaida il compito di ucciderlo, cosa che il gruppo guidato da bin Laden riuscì a fare il 10 settembre 2001, esattamente un giorno prima del devastante attacco alle Torri Gemelle di New York.

Un ritratto di Massoud esposto nella valle del Panshir nel 2009 (Paula Bronstein/Getty Images)

L’invasione sovietica, la guerriglia che produsse e gli enormi finanziamenti arrivati da Stati Uniti, Pakistan e paesi arabi, contribuirono a trasformare per sempre l’Afghanistan, radicalizzandone la politica e favorendo sistematicamente i gruppi più estremisti e violenti.

L’Afghanistan divenne una palestra dove si formò una generazione di combattenti radicali islamisti che esportarono le competenze apprese nel paese in tutto il Medio Oriente: dall’Iraq alla Libia, dalla Siria all’Arabia Saudita. Come ha raccontato il giornalista premio Pulitzer Lawrence Wright nel suo libro Le altissime torri, l’invasione sovietica è uno dei momenti fondamentali tra quelli che portarono alla nascita del moderno terrorismo internazionale islamista.

L’assalto al palazzo di Tajbeg e l’inizio dell’invasione negli ultimi giorni del 1979 furono così l’ultimo evento di un anno che, insieme alla Rivoluzione khomeinista in Iran e all’assalto alla Grande Moschea della Mecca, rimane ancora oggi uno dei più importanti nel definire il nostro presente.