Come ci vestiremo dopo la pandemia

Continueremo a stare in tuta o gireremo in tacchi alti, abiti sfarzosi e paillettes? Probabilmente un po' e un po', ma più serenamente

di Arianna Cavallo

(Blade Runner)
(Blade Runner)

«I pantaloni della tuta sono un segno di sconfitta. Non riesci più a controllare la tua vita e quindi te ne compri un paio»: lo diceva nel 2013 Karl Lagerfeld, direttore creativo di Chanel e Fendi e tra gli stilisti più influenti degli ultimi 50 anni, per liquidare la diffusione di modi di vestire rilassati e casual, etichettati via via come loungewear (abbigliamento per poltrire comodi a casa), athleisure, actiwear e sportswear (vestiti sportivi, come pantaloni da yoga, leggings o felpe, indossati nella vita di ogni giorno). Poi è arrivato il coronavirus, e quella che Lagerfeld definiva “la perdita del controllo della propria vita” è diventata una condizione comune a quasi tutti, accartocciati in pigiami, tute, abiti sempre più sformati e abbinamenti raffazzonati. Ad agosto una copertina diventata subito virale del New York Times Magazine decretò: «pantaloni della tuta per sempre» mostrandone un paio sventolante a mo’ di bandiera.

Il ritorno della bella stagione, le campagne vaccinali e l’allentamento delle restrizioni fanno affacciare la speranza di un ritorno graduale alla normalità, con la possibilità di uscire, andare al lavoro, riprendere la socialità e liberarsi dal bozzolo di felpe, leggings e calzini spaiati. La domanda che tutti, nel mondo della moda, si stanno quindi facendo è come ci vestiremo d’ora in poi? Ci lasceremo alle spalle le regole di abbigliamento pre-pandemia per uno stile più comodo e informale o avremo voglia di tirar fuori dall’armadio vestiti e accessori dimenticati: minigonne, paillettes, colori sgargianti e tacchi alti?

La risposta non è facile e sta occupando da mesi le riflessioni di stilisti, amministratori delegati di grandi magazzini, proprietari di piccole boutique e giornalisti. Quella più semplice, come scrive l’esperta di moda del Guardian Jess Cartner-Morley, è che dopo il lockdown e dopo il vaccino «ci divideremo in due tribù stilistiche. Per ogni persona che scalpita per rivivere i Ruggenti anni Venti nel XXI secolo, c’è qualcuno che ha trovato sollievo nei soffici tessuti del lockdown. La cultura risponde ai traumi in un caleidoscopio di modi: in fondo, negli anni successivi alla Prima guerra mondiale e all’influenza spagnola, Francis Scott Fitzgerald scrisse Il grande Gatsby e Thomas Stearns Eliot scrisse La terra desolata». I prossimi comportamenti rifletteranno, quindi, quelli che abbiamo già visto all’inizio della pandemia: c’era chi si sentiva sollevato dal non doversi agghindare per andare in ufficio e chi aveva bisogno di portare avanti i vecchi rituali senza cedere ai pigiami, investendo in maschere per la pelle e condividendo sui social network consigli su come colorarsi i capelli.

Probabilmente le predizioni di catastrofi e rivoluzioni proclamate dai giornali di moda un anno fa rimarranno in parte disattese, ma la pandemia lascerà di certo una sua eredità: nel modo di vestire, nei processi produttivi e soprattutto in quello che orienterà i consumi delle persone. La maggior parte degli esperti è convinta che l’attenzione per gli abiti comodi e informali resterà, che si guarderà di più alla praticità, alla qualità e alla durata nel tempo del prodotto e al suo impatto ambientale. È possibile che tenderemo a comprare meno cose e a pagarle di più, allontanandoci dall’accumulo di vestiti alla moda ma di scarso valore e a poco prezzo del fast fashion (l’abbigliamento venduto da catene come H&M e Primark), che acquisteremo abiti vintage e usati e che li affitteremo per le occasioni importanti. Tutte queste tendenze non sono qualcosa di nuovo nato durante la pandemia: ne sono state solo rafforzate e resteranno perché erano già in circolazione.

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Come ha raccontato al sito di moda Coveteur Valerie Steele, direttrice del museo del Fashion Institute of Technology di New York, tutti i cambiamenti emersi dopo le guerre, le rivoluzioni o le pandemie erano iniziati da prima: nei momenti di crisi la moda risponde con soluzioni già in corso. Durante la Rivoluzione francese, per esempio, le donne sostituirono i fronzoli aristocratici con semplici gonne bianche, che si vedevano già dal 1780; dopo la rivoluzione assunsero un significato politico ma divennero anche una necessità, perché reperire tessuti pregiati era diventato difficile.

La Prima guerra mondiale spazzò via corsetti e accorciò le gonne tanto che, dice Steele, «se confronti un vestito del 1900 e uno del 1920 ti verrà da dire “santo cielo, la Prima guerra mondiale ha cambiato davvero tutto!” [..] In realtà già dal 1908 ci si stava liberando dai corsetti e si stava sperimentando con gonne più corte. Quel che accadde durante la guerra velocizzò quelle tendenze e le diffuse nella società, più che creare qualcosa di nuovo».

Durante la Grande depressione degli anni Trenta e la Seconda guerra mondiale il modo di vestire non cambiò ma si inceppò il sistema produttivo: i sarti andarono in rovina, le fabbriche di abbigliamento confluirono nello sforzo bellico, non si potevano comprare abiti nuovi e si rattoppava quel che già si aveva, per gli abiti da sposa si usava la seta dei paracadute e si facevano i tacchi alti con il sughero, tra i pochi materiali non razionati (a partire dalle zeppe inventate per le attrici di Hollywood da Salvatore Ferragamo negli anni Trenta). Le donne entrarono nel mondo del lavoro occupando molte mansioni che gli uomini, in guerra, non potevano più svolgere e che fino a quel momento erano state loro precluse: iniziarono a indossare pantaloni e tute da meccanico e a vestirsi pensando alla praticità anziché alla grazia.

Londra, 1939
(Evening Standard/Getty Images)

Una volta terminata la guerra, le donne si ritrovarono recluse negli spazi casalinghi e dopo anni di uniformi mascoline e funzionali ritornarono ad abiti stretti in vita, con gonne voluminose e colori pastello, decretando il successo dello sfarzoso New Look, lo stile di vestire femminile ed elegante che esaltava una forma del corpo a clessidra, presentato nel 1947 dallo stilista Christian Dior. Come racconta Steele però, «il New Look bolliva in pentola da prima della guerra: Dior disegnava abiti dagli anni Trenta ma non poteva mandare niente in produzione perché mancavano i tessuti adatti. La silhouette voluminosa era uno spostamento dalla figura longilinea degli anni Trenta e probabilmente non venne causata dalla guerra: sarebbe arrivata ugualmente».

Un abito del New Look di Christian Dior nel 1947 (AP Photo)

Lo stile postbellico può sembrare una reazione di rifiuto o un passo indietro rispetto al modo di vestire degli anni della guerra, che però in realtà non venne dimenticato: molte donne si ricoprirono di vezzi e corsetti, ma tante altre continuarono a portare i pantaloni e non smisero più. Kimberly Chrisman-Campbell, autrice di The Way We Wed, spiega infatti che i pantaloni e altri indumenti prima riservati agli uomini furono normalizzati grazie al tempo del conflitto: «dopo una crisi c’è un ritorno indietro ma c’è anche un cambiamento duraturo».

Lo stesso meccanismo si è mostrato più di recente, durante la recessione economica del 2008. Non ci furono grossi cambiamenti nel modo di vestire e il fast fashion, che permetteva di essere alla moda pagando poco, cresceva già da anni. La storica del costume Laura Mclaw Helms ricorda che «la tendenza verso il minimalismo», iniziata come reazione al massimalismo degli anni Duemila, venne rafforzata dalla recessione e portò al grande apprezzamento della stilista Phoebe Philo di Céline e di marchi sobri e attenti alla qualità come Everlane. Ora sta accadendo lo stesso ed è per questo che i pantaloni della tuta e le felpe resteranno: la moda stava diventando casual da anni, sempre più uffici permettevano di vestirsi in modo informale – dai completi degli anni Novanta ai pantaloni con polo degli anni Duemila fino alle felpe sdoganate dal settore informatico e tecnologico – e le vendite di tacchi alti erano in crisi da tempo, soppiantati dalle sneaker.

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Lo dimostra anche la tenuta della filiera produttiva, che si è adattata rapidamente alle nuove esigenze delle persone durante la pandemia: le aziende sapevano già che abiti produrre, dove rifornirsi dei materiali e in quali fabbriche farli lavorare. Per dare un’idea: nel 2020, negli Stati Uniti, le vendite di pantaloni da tuta sono aumentate del 17 per cento rispetto al 2019 (con un picco ad aprile 2020 dell’80 per cento rispetto all’aprile 2019). Abbiamo comprato più scarpe basse come Crocs e stivaletti Ugg, bralettes, reggiseni sportivi (un 32 per cento in più tra aprile e giugno 2020 rispetto all’aprile-giugno del 2019) e senza ferretto (+5 per cento nello stesso periodo) e sono comparsi con grande successo i pantaloni in denim con l’elastico.

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Secondo il rapporto annuale realizzato dalla rivista di moda Business of Fashion con la società di analisi McKinsey, nel 2020 in Europa il 40 per cento delle persone ha speso meno in abbigliamento rispetto al 2019 e le scelte d’acquisto sono state orientate dalla qualità del prodotto, dalla sua praticità, dal comfort e dal suo valore, mentre le tendenze e lo stile non sono state una priorità: il mercato si è rivolto verso capi di base e casual, che sono tornati presto a vendere a livelli pre-pandemia; i vestiti formali e quelli da cerimonia invece non si sono ripresi, rappresentando solo il 25 per cento delle vendite del 2020. Quest’anno insomma la moda è sopravvissuta grazie a tute, leggings, pigiami e abiti informali.

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Nei mesi di pandemia molte persone si sono perse in quello che il New York Times ha definito hate-wear, un abbigliamento né bello né comodo ma indossato a rotazione per pigrizia: felpe con buchi, pantaloni da tuta della taglia sbagliata e maglioni sformati messi così spesso da «diventare un simbolo di stress e stanchezza». Esquire ha parlato di sadwear per indicare «gli abiti che ci fanno sentire meglio quando siamo tristi, nati specificatamente dalla noia e dalla depressione esistenziale del lockdown». Gli appassionati di moda invece hanno trasformato pigiami, felpe, leggings in uno stile, mettendo a punto quella che la rivista Harper’s Bazaar ha definito, lo scorso gennaio, uniforme non ufficiale del lockdown: un completo coordinato fatto di felpa, pantaloni della tuta o in maglia; un cappotto lungo dal taglio maschile in blu, nero, crema o cammello; sneaker, come New Balance o Nike, e un cappellino da baseball consigliato ma non richiesto.

 

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Lo si è visto riproposto infinite volte dagli influencer su Instagram e TikTok. Personaggi famosi come la modella Kylie Jenner e la cantante Ariana Grande hanno postato foto del loro viso al naturale, senza trucco, il cantante Justin Bieber si è mostrato in pantaloncini e felpona, il gruppo musicale sudcoreano BTS ha girato il video della canzone Life Goes On in pigiama e ad aprile Anna Wintour, la direttrice di Vogue America, considerata l’autorità nel mondo della moda, era comparsa su Instagram con caschetto impeccabile, occhialoni da sole, maglione e pantaloni da tuta rossi.

 

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Questo modo di vestire si vedeva da anni ma ora è diventato quello su cui scommetteranno, probabilmente per tutto il 2021, gli stilisti, le aziende e i rivenditori di moda. Ne è convinto l’Economist, che sostiene che le persone non vorranno più indossare cravatte, scarpe strette, jeans e giacche attillate ma cercheranno abiti che vadano bene per lavorare da casa, rilassarsi sul divano, camminare nel parco e fare un pranzo all’aperto con gli amici: che siano quindi versatili e comodi. «Nelle prossime stagioni – scrive – «le aziende avranno successo solo se sapranno rispondere alla richiesta di comodità, anche quando torneranno le occasioni per vestirsi bene» e aggiunge che «gli stilisti che si preoccupano solo di come appaiono i loro vestiti e non di come ci si sta dentro sono condannati a ritrovarsi dalla parte sbagliata della storia».

All’ultima settimana della moda di New York, che si è tenuta a febbraio, il fantasioso stilista Prabal Gurung ha cercato di rassicurare i suoi colleghi – tra cui l’elegante Tom Ford, che ha detto di sentirsi «troppo vulnerabile in tuta» – dicendo che «la tuta non durerà per sempre». Alla maggior parte delle ultime sfilate, però, i grandi marchi hanno proposto linee morbide e versioni di lusso dello stile del lockdown. Gli stilisti Miuccia Prada e Raf Simons, direttori creativi di Prada, hanno fatto ruotare la loro ultima collezione maschile attorno a un body piece, una specie di calzamaglia aderente con colori vivaci e disegni geometrici, da accompagnare a maglioni e cappotti dal taglio sartoriale.

 

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Lo stilista britannico Paul Smith ha fatto sfilare una modella con un trench rosa cipria portato su un pigiama di seta «per quando sei incastrata nel lockdown e improvvisamente vuoi andare a comprarti un sushi ma non hai voglia di pensare a cosa metterti». Fendi ha proposto pigiami di lusso, Etro felpe e Altuzarra, un marchio franco-americano che fa abiti da red carpet più che da poltrona, ha messo insieme una collezione con linee e tessuti morbidi e informali: «penso che dopo mesi in tuta le persone vorranno sentirsi comode» ma questo non significa necessariamente stare in tuta. «Non potrebbe essere un vestito? Un vestito da casa facile da portare, da indossare e togliersi al volo con un colpo di zip». È un po’ il concetto di “switchwear” portato avanti dalla – più economica – azienda AZ, che ha una linea di pigiami e gonnelloni in seta presentati come adatti a ogni situazione: andare a un appuntamento, a una lezione di yoga o restarsene sotto le coperte.

Anche l’alta moda che ha sfilato a febbraio – cioè i costosi abiti fatti su misura con tessuti pregiati e lavorazioni artigianali di altissimo livello – rispecchia l’imperativo della comodità. È vero che questi vestiti non finiranno mai negli armadi delle persone, se non di pochissime, ma offrono comunque degli spunti ai marchi più accessibili. Il direttore creativo di Valentino, Pierpaolo Piccioli, presenta di solito abiti voluminosi e di grande effetto ma questa volta ha proposto una collezione più sobria e adatta ai tempi, con pantaloni beige, trench e felpe, seppur dai tagli raffinati e tessuti preziosi.

Alber Elbaz – ex direttore creativo del marchio di lusso Lanvin, morto il 24 aprile a 59 anni – aveva scelto vestiti in maglia per «una moda in grado di proporre soluzioni per tutti», tra cui molti capi che si abbinano facilmente tra loro in un guardaroba contenuto. Dal marchio italiano Schiaparelli la collezione di alta moda per la primavera/estate 2021 era quasi interamente in nero, bianco e blu, con enormi gioielli e bottoni decorativi che potevano essere indossati oppure no, per passare da uno stile sobrio a uno elegante e stravagante.


È anche vero che la voglia di eleganza, opulenza e liberazione dai toni monocordi del lockdown è sempre più palpabile, tanto che in un articolo di marzo la rivista di moda Vogue aveva annunciato che «il glamour è tornato». Lo dimostrano gli influencer sui social network – tra corsetti, rossetti, ricami, abiti striminziti e colorati, fantasie a fiori –, i dati di vendita e ancora una volta le sfilate.

Jeannie Lee, a capo dell’abbigliamento femminile dei grandi magazzini britannici Selfridges, racconta che «le mie clienti vogliono vedere gonne, tacchi alti, luccichii: sono pronte per vestirsi di tutto punto». Secondo il rivenditore di moda online Lyst, da gennaio a oggi le ricerche di reggiseni con brillantini sono aumentate del 137 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, quelle di cerchietti con perle e piume del 49 per cento e quelle di maglieria e tessuti metallici del 47 per cento; negli ultimi tre mesi, negli Stati Uniti e in Regno Unito le vendite di scarpe con il tacco sono cresciute del 32 per cento rispetto allo stesso trimestre del 2019. I buyer, cioè le persone che scelgono quali vestiti vendere nei negozi, hanno notato un aumento di capi in maglia con decorazioni, elementi metallici o ritagli particolari, e stanno tornando anche colori brillanti, vestiti cortissimi, top impreziositi e linee voluminose, ha detto Tiffany Hsu, direttrice delle vendite globali di Mytheresa, un altro e-commerce di abbigliamento di lusso.

La sfilata di Dior che il 15 aprile ha presentato a Shanghai la collezione per l’autunno/inverno 2021/22 traboccava di colori neon, argenti, paillettes giganti, leggings traforati, stampe animalier, gonne plissettate e – ricordo della pandemia – calzini a rete da portare a metà polpaccio.

 

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Strass, paillettes, gioielli, fibbie, colori brillanti, piume, pellicce, corsetti e una borsetta a forma di cuore anatomico ricoperta di cristalli hanno costellato la collezione “Aria” di Gucci, disegnata dal direttore creativo Alessandro Michele per celebrare, sempre ad aprile, il centenario dalla fondazione dell’azienda italiana. È stata presentata con un video realizzato dalla regista Floria Sigismondi che si conclude in un giardino tra cavalli e pavoni bianchi, una specie di Eden post-pandemico.


Questo non significa però che le persone siano disposte ad abbandonare la comodità e la versatilità conquistate durante la pandemia. Libby Page di Yoox-Net-a-Porter, uno dei più grandi rivenditori di moda al mondo, spiega che le aziende di abiti da sera «si stanno adattando, introducendo la maglieria e vestiti più casual».

A voler fare delle previsioni più spicciole per il futuro, è molto probabile che stilisti e negozi proporranno insieme capi con paillettes e pantaloni della tuta per tutto il resto dell’anno. Un punto di forza sarà la versatilità degli abiti e il cosiddetto mix and match, la possibilità di mescolare capi diversi tra loro: si troveranno top sportivi o eleganti che si abbinano bene con leggings, pantaloni sobri o eccentrici. La comodità delle forme e dei tessuti sarà accompagnata da colori brillanti, fantasie divertenti, piume e altri elementi decorativi e forse aumenteranno i tessuti con proprietà antibatteriche, soprattutto per capi sportivi, come quelli realizzati dalla marca giapponese Uniqlo per le linee Dry Ex e Heattech.

L’abbigliamento da casa, quindi, non scomparirà ma si evolverà. Secondo il Guardian le donne cercheranno soprattutto vestiti informali e comodi, in tessuti facili da lavare, pigiami di lusso e scarpe che si possono indossare a casa o per uscire, come le friulane; gli uomini si orienteranno verso tessuti leggeri, in lino e in cotone, polo in maglia, camicie dalla maniche corte. Andrew Ibi, esperto nel prevedere le tendenze nel settore, è convinto che ci sarà un nuovo senso di libertà: «ci sarà un’accettazione maggiore di come ci vestiremo nelle occasioni più varie: che si tratti di andare all’opera con i leggings o arrivare in ufficio tutti agghindati».

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