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  • Venerdì 22 gennaio 2021

Il generale che fa litigare Messico e Stati Uniti

Salvador Cienfuegos Zepeda, ex ministro della difesa messicano, era stato arrestato per traffico di droga negli Stati Uniti e poi rilasciato: la vicenda rischia di creare una crisi diplomatica

Il generale messicano Salvador Cienfuegos Zepeda, ex ministro della Difesa, nel 2016 (AP Photo/Marco Ugarte)
Il generale messicano Salvador Cienfuegos Zepeda, ex ministro della Difesa, nel 2016 (AP Photo/Marco Ugarte)

L’arresto, la scarcerazione e poi il discusso proscioglimento di un generale messicano, ministro della Difesa tra il 2012 e il 2018, sta provocando gravi problemi tra il governo degli Stati Uniti e quello del Messico, e potrebbe creare problemi a lungo termine per l’amministrazione di Joe Biden nella lotta alla droga e nei rapporti bilaterali tra i due paesi.

Il generale messicano, Salvador Cienfuegos Zepeda, era stato arrestato lo scorso ottobre mentre si trovava in vacanza a Los Angeles con la famiglia, con accuse di traffico di droga e corruzione. È il funzionario messicano più alto in grado mai arrestato nella guerra alla droga. L’arresto, che fu una grave sorpresa per il Messico, si trasformò in una disputa diplomatica molto ampia tra Stati Uniti e Messico, che si concluse con una decisione inedita: l’amministrazione statunitense rilasciò Cienfuegos adducendo ragioni di politica estera, e giustificando la scarcerazione con la necessità di non mettere i pericolo i rapporti bilaterali. Cienfuegos, disse il dipartimento di Giustizia, sarebbe stato giudicato in Messico.

Ma il governo messicano negli scorsi giorni si è rifiutato di farlo, e non ha avanzato accuse contro Cienfuegos. Al contrario, il presidente nazionalista del Messico, Andrés Manuel López Obrador (noto come AMLO), ha dapprima reso pubbliche 700 pagine di prove raccolte dagli americani, poi ha accusato gli Stati Uniti di averle falsificate.

Cienfuegos era stato accusato dai procuratori statunitensi di essersi fatto corrompere dal cartello H-2, un gruppo di narcotrafficanti attivo negli anni in cui era ministro della Difesa (“H-2” è il soprannome del capo del gruppo, Juan Francisco Patrón Sánchez, ucciso nel 2017; veniva chiamato così perché era il successore di Hector Beltrán Leyva, un narcotrafficante famoso che aveva come soprannome “H”). Secondo le accuse, in cambio del denaro Cienfuegos avrebbe protetto il cartello H-2, e in alcuni casi avrebbe diretto le forze dell’esercito sotto il suo comando, impiegate nella lotta alla droga, contro gruppi criminali rivali. Sempre secondo le accuse, anche Cienfuegos aveva un soprannome (“El Padrino”) e usò la sua posizione per avvertire il cartello H-2 che le forze dell’ordine americane avevano un informatore tra i loro ranghi. L’informatore fu ucciso.

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A ottobre, l’arresto di Cienfuegos fu accolto in Messico con molta sorpresa, e divenne in poco tempo un grave problema per il presidente López Obrador. L’arresto metteva in crisi la credibilità dell’attività di contrasto al narcotraffico del suo governo, ma soprattutto metteva in crisi l’esercito. López Obrador, un populista di sinistra, per gran parte della sua carriera politica è stato critico sull’utilizzo dell’esercito nel contrasto alla criminalità organizzata — una pratica comune a molti governi messicani e diventata ordinaria circa 15 anni fa — e in generale della guerra alla droga. Ma una volta salito in carica da presidente, all’inizio del 2018, López Obrador ha cominciato a fare affidamento sull’esercito perfino più dei suoi predecessori, almeno in alcuni casi. Ha continuato a sostenere l’utilizzo dell’esercito nella guerra alla droga, dandogli anzi un ruolo più importante e creando una nuova Guardia nazionale; inoltre ha impiegato i militari in altre attività che di solito sono riservate ai civili, come la costruzione di un nuovo aeroporto a Città del Messico e la distribuzione dei vaccini contro il coronavirus.

Dopo l’arresto, il governo messicano cominciò a protestare contro quello statunitense per non essere stato avvisato dell’arresto, e a chiedere che Cienfuegos fosse processato in Messico, dove aveva commesso i suoi presunti crimini, come dichiarò il ministro degli Esteri messicano, Marcelo Ebrard. La disputa si estese anche a livello diplomatico, tanto che il Messico minacciò perfino di sospendere ogni tipo di collaborazione con la DEA, l’agenzia antidroga statunitense, che in Messico opera con una certa libertà grazie a una serie di accordi bilaterali.

Con un atto piuttosto sorprendente, un mese dopo l’arresto, nel novembre dell’anno scorso, il governo statunitense cedette alla pressione, e rilasciò Cienfuegos, spiegando che la decisione del rilascio non aveva una ragione legale (i procuratori erano ancora convinti che il generale avesse commesso i crimini di cui era accusato) ma diplomatica: i procuratori generali di Brooklyn, dove Cienfuegos avrebbe dovuto essere giudicato, fecero sapere in un comunicato che «gli Stati Uniti hanno deciso che ragioni delicate e importanti di politica estera superano in importanza l’interesse del governo nel mantenere aperto il caso». Mike Vigil, un ex direttore delle operazioni internazionali della DEA, commentando la notizia disse al Wall Street Journal: «Nei miei 31 anni alla DEA non ho mai assistito a niente di così assurdo e insolito».

Nonostante il rilascio e il rapido ritorno in Messico di Cienfuegos, il governo messicano mantenne la promessa di ritorsioni, e a metà dicembre dell’anno scorso il Parlamento approvò una legge che limitava fortemente la libertà d’indagine della DEA sul suo territorio. In particolare, la legge impone a tutti i funzionari messicani di avvertire il governo per ogni telefonata, incontro o comunicazione con un agente straniero, entro tre giorni dal momento un cui avviene. Secondo la DEA, questa legge potrebbe ridurre l’efficacia delle operazioni contro il narcotraffico.

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La settimana scorsa, infine, il governo messicano ha deciso di liberare il generale Cienfuegos e di sollevarlo da ogni accusa, sostenendo che le prove presentate a suo carico dal governo americano non sarebbero sufficienti per giustificare un’incriminazione. Alejandro Gertz Manero, il procuratore generale messicano, ha detto in un comunicato che il generale «non ha avuto incontri con i membri dell’organizzazione criminale» e che non ha mai ricevuto «entrate illecite».

Come ha scritto il New York Times, il governo statunitense ha risposto con molta contrarietà: il dipartimento di Giustizia, che ancora per pochi giorni era guidato da William Barr, ha fatto sapere di essere «profondamente deluso» per la decisione e che si sarebbe riservato il diritto di perseguire Cienfuegos qualora fosse tornato negli Stati Uniti. Secondo gli esperti legali, gran parte delle accuse contro Cienfuegos erano basate su prove circostanziali come per esempio messaggi intercettati e testimonianze di terzi, che nel sistema giudiziario messicano spesso non sono considerate abbastanza solide da garantire il rinvio a giudizio.

Le cose sono peggiorate dopo che López Obrador, commentando il proscioglimento di Cienfuegos, ha detto che a suo parere l’indagine statunitense era basata su prove falsificate, «consciamente o inconsciamente».

Contemporaneamente, il ministero degli Esteri ha reso pubblico l’intero fascicolo di oltre 700 pagine che i procuratori statunitensi avevano affidato ai colleghi messicani, nella speranza che continuassero con il processo. Maureen Meyer, del centro studi Washington Office on Latin America, ha detto a Bloomberg che la pubblicazione «avrà un impatto negativo sullo scambio di informazioni» tra i due paesi, e che si tratta di «una violazione della fiducia che dovrà essere recuperata se i due governi vorranno continuare a cooperare sui casi di crimine transnazionale». Secondo il New York Times, la relazione tra i due paesi quando si parla di sicurezza è «in rovina».

Questo sarà un problema di cui si dovrà occupare il nuovo presidente statunitense, Joe Biden, che in López Obrador potrebbe trovare un partner ostile.

Il presidente messicano fu eletto nel 2017, quando già si era manifestato l’atteggiamento aggressivo di Donald Trump nei confronti del Messico, minacciato più volte con pesanti dazi e con la richiesta di pagare per la costruzione del muro al confine tra i due paesi (per non parlare delle accuse contro i messicani, definiti «stupratori» fin dal discorso con cui Trump annunciò la sua candidatura alla presidenza).

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López Obrador inizialmente fu molto ostile nei confronti di Trump, ma l’atteggiamento è cambiato con gli anni. I due avevano imparato ad apprezzarsi ed erano giunti a una specie di compromesso informale, ma spiegato dagli analisti: López Obrador aiutava Trump a tenere quanto più possibile lontani i migranti dai confini, e in cambio Trump non si intrometteva negli affari interni messicani, come invece i governi degli Stati Uniti sono soliti fare. L’apprezzamento di López Obrador è diventato palese quando a luglio dell’anno scorso, in piena campagna elettorale americana, il presidente messicano fece una visita ufficiale a Washington e descrisse Trump con toni molto positivi.

Ora López Obrador teme che con Biden le cose possano cambiare, che la nuova amministrazione si intrometterà di più negli affari interni del Messico, e già da qualche mese ha cominciato a comportarsi più freddamente, in alcuni casi con atti di aperta ostilità: è stato uno degli ultimi leader mondiali a congratularsi con Biden per la vittoria alle elezioni, si è offerto di dare asilo a Julian Assange, il capo di Wikileaks molto inviso al Partito Democratico a cui Biden appartiene, e ha aperto una crisi piuttosto grave con la decisione di prosciogliere il generale Cienfuegos.