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  • Mercoledì 6 gennaio 2021

Gli animali possono rallentare lo scioglimento del permafrost?

È l'obiettivo del Parco del Pleistocene, nella Siberia orientale, dove l'aumento dei pascoli ha già avuto qualche effetto positivo

Un cavallo nella neve, nella parte nord-orientale della Russia, dove si trova il Parco del Pleistocene. (Christoffer Hjalmarsson/ LaPresse)
Un cavallo nella neve, nella parte nord-orientale della Russia, dove si trova il Parco del Pleistocene. (Christoffer Hjalmarsson/ LaPresse)

Uno dei principali problemi legati agli effetti del riscaldamento globale è quello dello scioglimento del permafrost, la parte del suolo che nelle regioni fredde rimane perennemente ghiacciata. Negli ultimi anni il processo è accelerato così tanto da aver modificato le caratteristiche del suolo, provocando danni ambientali e a edifici e infrastrutture, per esempio in Russia, Canada e Alaska. Esiste però un posto dove si sta provando a limitare lo scioglimento del permafrost in maniera particolare: l’obiettivo del Parco del Pleistocene, nella Siberia nord-orientale, è ricreare le condizioni adatte al mantenimento del permafrost reintroducendo al suo interno gli animali da pascolo.

Il permafrost ricopre circa un quarto dell’emisfero nord della Terra e si stima che al suo interno siano accumulati tra i 1.400 e i 1.600 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, contenuta per esempio nelle carcasse degli animali o nelle piante antiche sepolte nel ghiaccio: il doppio della quantità che si trova nell’atmosfera e il triplo di quello che si trova in tutte le foreste del pianeta. Il problema è che con lo scioglimento dei ghiacci l’anidride carbonica viene rilasciata insieme ad altri gas, come il metano, che contribuiscono all’effetto serra, alimentando il riscaldamento globale che a sua volta provoca l’accelerazione dello scioglimento del permafrost, con numerose conseguenze per l’ambiente.

Come ha spiegato l’Economist, spesso si parla delle riserve di anidride carbonica nel permafrost come di «una bomba», ma in realtà lo scioglimento sta avendo l’effetto di «un tubo che perde», e la velocità con cui continuerà a perdere – e quindi a causare danni – in futuro dipende anche dall’efficacia delle misure e dei comportamenti che saranno messi in atto per ridurre le emissioni di gas a livello globale: se le emissioni prodotte dalle diverse attività umane non dovessero diminuire, si calcola che il 5-15 per cento delle riserve accumulate nel permafrost possano essere rilasciate nell’arco di questo secolo, contribuendo da sole a innalzare la temperatura globale di quasi 0,3 ºC.

Oltretutto, il modo in cui si scioglie il permafrost è complesso e irregolare. La maggior parte dei modelli che sono stati studiati finora parla di un disgelo graduale, ma secondo altri esperti lo scioglimento potrebbe provocare rapidi processi di erosione, che farebbero collassare il suolo e favorirebbero anche il termocarsismo, cioè la formazione di bacini idrici sopra gli strati di permafrost: oltre a liberare ulteriori gas, la presenza dell’acqua dove prima c’era il ghiaccio provocherebbe nuove crepe nel terreno e allargherebbe quelle già esistenti, causando ulteriori dissesti.

– Leggi anche: La formazione del ghiaccio nell’Artico è avvenuta in ritardo

L’idea che ha portato alla creazione del Parco del Pleistocene nella Siberia nord-orientale è che dopo l’ultima era glaciale – alla fine del Pleistocene, il periodo compreso tra 2,5 milioni e 11.700 anni fa – le erbe di cui si nutrivano e che calpestavano mammut, bisonti, renne e altri animali tipici di queste zone fossero state sostitute dalla vegetazione tipica della tundra, umida e piena di muschio, per effetto dell’aumento delle temperature. Secondo le teorie più diffuse, questi animali morirono in parte per via dei cambiamenti del clima e in parte per via della caccia sempre più intensa, perché le temperature più miti avevano permesso agli umani di arrivare in punti dove non erano mai stati.

Secondo Sergei Zimov, il geofisico che ha fondato il Parco del Pleistocene, ricreare le stesse condizioni di quell’era geologica potrebbe contribuire a ridurre la temperatura al suolo e quindi a mitigare gli effetti del processo di disgelo del permafrost.

Nel 1980 Zimov si trasferì con la moglie nei pressi di Čerskij, nel nord-est della Russia, dove scorre il fiume Kolyma, un’area remota e inospitale: d’inverno le temperature scendono fino a -50 ºC e all’epoca c’erano soltanto alcuni campi di lavoro forzato (gulag) abbandonati da anni. Zimov fondò la Stazione di Ricerca Nord-orientale per la ricerca artica e iniziò a studiare gli effetti dello scioglimento del permafrost, scoprendo che contrariamente a quanto si era creduto fino a poco tempo prima il disgelo avveniva anche in inverno e che il permafrost conteneva riserve di anidride carbonica ben superiori a quelle che erano state stimate. Zimov decise quindi di trovare un modo per preservare il permafrost e concluse che ripopolare con animali da pascolo le zone dove nel Pleistocene vivevano migliaia di animali potesse servire sia ad agevolare il riemergere delle erbe, sia a mantenere fresche le temperature.

Gli animali da pascolo introdotti nel parco schiacciano il muschio e smuovono il terreno, e in questo modo agevolano la crescita di erbe più secche: queste non solo riflettono più luce e quindi riducono la quantità di calore al suolo, ma riescono anche a trattenere maggiori quantità di anidride carbonica. Gli animali inoltre sradicano e calpestano arbusti e conifere, facendo spazio per la formazione di nuove praterie; in più, muovendosi, calpestano e appiattiscono la neve, favorendo la formazione del ghiaccio e il mantenimento del permafrost.


Negli anni Zimov ha trasformato la propria iniziativa in un centro di ricerca internazionale – un’impresa sotto molti punti di vista, data la sua posizione remota e l’assenza di particolari finanziamenti – e ha coinvolto anche il figlio, Nikita, che oggi lo aiuta nella gestione del parco. I primi piani per la realizzazione del progetto risalgono al 1996, quando il governo russo aveva dato in concessione a Zimov un’area di circa 144 chilometri quadrati per condurre i suoi esperimenti. Oggi il parco si è allargato ulteriormente e si mantiene soprattutto grazie alle donazioni; ospita cavalli Yakut, alci, renne, pecore, buoi e altri animali da pascolo, e in futuro dovrebbero essere introdotti anche il bue muschiato e il bisonte americano.

Mettendo in pratica il suo modello, Zimov ha notato che le temperature medie annue del suolo nelle aree pascolate sono diventate più fredde di 2,2 °C rispetto a quelle delle stesse zone dove non ci sono animali. Inoltre, ha osservato che anche la quantità di gas serra trattenuta dal suolo è maggiore, proprio grazie al ruolo delle erbe.

Per Zimov il parco è solo un punto di partenza: idealmente vorrebbe allargarlo e farlo arrivare fino in Canada e in Alaska, per creare un ecosistema abbastanza grande da avere un impatto concreto sul clima di aree molto più estese. Secondo lo studio di un gruppo di ricercatori dell’Università di Oxford che ha lavorato con Nikita, però, per ripopolare le zone artiche e vedere effetti significativi su aree più vaste bisognerebbe introdurre migliaia di animali e avere l’appoggio delle popolazioni locali, oltre che il sostegno finanziario dei vari governi: un piano di dieci anni che coinvolga circa 3mila animali costerebbe l’equivalente di circa 100 milioni di euro. Alcuni scettici inoltre dubitano del fatto che le praterie possano essere efficaci per preservare il permafrost, soprattutto se a livello globale non si prenderanno provvedimenti per ridurre in maniera significativa le emissioni.

A ogni modo, il sogno di Zimov e del figlio sarebbe vedere un esemplare di mammut nel parco, prima o poi; per questa ragione stanno collaborando con il genetista dell’Università di Harvard, George Church, che sta studiando la possibilità di riportare in vita il mammut lanoso attraverso la tecnologia del sistema di editing del genoma CRISPR, seppure l’obiettivo sia estremamente ambizioso.