• Mondo
  • Domenica 27 dicembre 2020

Come la Cina ha censurato la pandemia

Un'inchiesta del New York Times e di ProPublica racconta come il governo tentò di sminuire il problema e mostra come funziona il sistema di censura cinese

(AP Photo/Andy Wong)
(AP Photo/Andy Wong)

Qualche giorno fa il New York Times e ProPublica hanno pubblicato una lunga inchiesta su come il governo cinese abbia manipolato a suo favore il discorso pubblico durante i mesi più gravi della pandemia da coronavirus nel paese, impiegando centinaia di migliaia di persone in attività di censura e propaganda online, con l’intento, tra le altre cose, di ridurre la percezione della pericolosità del virus proprio mentre questo si stava diffondendo fuori dal paese.

L’inchiesta si basa su una gran mole di documenti (3.200 direttive, 1.800 relazioni) rubati da un gruppo di hacker dall’ufficio della Cyberspace Administration of China, l’agenzia cinese che si occupa della regolamentazione di internet (CAC) ad Hangzhou, una città di dieci milioni di abitanti nell’est del paese, non lontano da Shanghai. I documenti sono stati ottenuti da un gruppo di hacker che si chiama C.C.P. Unmasked (CCP sta per Partito comunista cinese) e passati al New York Times e a ProPublica. Gli hacker hanno anche ottenuto documenti e informazioni su Urun Big Data Services, una società che produce software usato dalle amministrazioni cinesi per controllare le conversazioni su internet e manipolare il discorso online.

L’inchiesta, oltre a fornire alcuni elementi sull’attività di censura e manipolazione delle informazioni nel corso della pandemia, mostra dall’interno il funzionamento dell’apparato censorio cinese, che è estremamente sofisticato e richiede l’impiego, almeno part-time, di centinaia di migliaia di persone sia nelle attività di censura sia, soprattutto, nella diffusione di messaggi di propaganda e nella pubblicazione di commenti favorevoli al regime.

La Cyberspace Administration of China è un’agenzia creata nel 2014 dal presidente cinese, Xi Jinping, con l’obiettivo di centralizzare tutte le attività di censura e propaganda online. L’agenzia riferisce direttamente al Comitato centrale del Partito comunista, uno degli organi più importanti dello stato, e ha uffici diffusi in maniera capillare in tutto il paese. Di solito questi uffici si occupano di censura e propaganda a livello locale: lamentele contro l’amministrazione, problemi di ordine pubblico, piccole proteste e così via. A partire dall’inizio di gennaio del 2020 e per i mesi successivi, però, l’ufficio ad Hangzhou cominciò a occuparsi ininterrottamente della crisi nazionale provocata dal coronavirus.

Per esempio, una direttiva centrale della CAC impose a tutti i mezzi di comunicazione di utilizzare soltanto materiale ufficiale per la comunicazione del nuovo virus, e di evitare paragoni con la SARS, che aveva provocato un’epidemia molto grave nel 2002, anche se l’OMS al tempo già sosteneva che le due malattie fossero simili.

– Leggi anche: Come andò con la SARS

All’inizio di febbraio, mentre il virus continuava a diffondersi, il governo centrale ordinò una restrizione ulteriore della comunicazione online, e la CAC cominciò a inviare direttive molto rigide su quali contenuti potessero mostrare i siti di news, su come dovessero essere composte le homepage e perfino su quanto tempo ciascun articolo potesse rimanere online e a quali titoli dare evidenza. Uno degli ordini più importanti fu quello di limitare la percezione del pericolo dell’epidemia, evitando per esempio di usare aggettivi come «letale».

Inoltre, ai media fu ordinato di non dare evidenza alle notizie sulle donazioni e sugli acquisti dall’estero di dispositivi medici come mascherine, guanti e respiratori, per due ragioni: evitare di dare l’impressione che il paese dipendesse dall’estero e, soprattutto, distogliere l’attenzione dal fatto che la Cina stava accumulando grandi riserve di dispositivi medici ottenuti sul mercato internazionale, proprio mentre il virus si stava espandendo all’estero. Nei mesi successivi, la Cina avrebbe dato grande risalto pubblico alle donazioni di mascherine fatte ai paesi europei duramente colpiti dal coronavirus.

Il problema più grande per i censori di stato sorse però dopo la morte di Li Wenliang, un medico cinese che era stato tra i primi a dare l’allarme sul nuovo coronavirus in una chat di colleghi, il 30 dicembre del 2019, e che per questo era stato punito. Il dottor Li, un oftalmologo, si era poi ammalato ed era morto a causa della COVID-19 il 7 febbraio. La sua storia, diffusa sui social media locali, in particolare Weibo, creò grande commozione sia in Cina sia all’estero e divenne un simbolo della malafede del governo cinese nella gestione della crisi.

– Leggi anche: Il culto intorno a Li Wenliang

Nei documenti ottenuti da New York Times e ProPublica, i censori cinesi scrissero che la morte di Li costituiva «una sfida senza precedenti» e inviarono numerose direttive per regolare il discorso online e contenere la rabbia, consentendo per esempio le dimostrazioni di affetto e commiato, ma eliminando tutti i contenuti che avrebbero potuto «sobillare l’opinione pubblica». Nei giorni successivi alla morte di Li, moltissime manifestazioni di cordoglio online cominciarono a sparire, e al tempo stesso si attivò la polizia, che arrestò o minacciò gli utenti che avevano postato i commenti più critici o pericolosi. I media inoltre furono istruiti a esaltare gli atti eroici dei medici e del resto del personale sanitario, specie se iscritti al Partito comunista.

Soprattutto, per manipolare il discorso pubblico il governo cinese usò centinaia di migliaia di funzionari di basso livello che, spesso part-time, diffondevano messaggi di propaganda, postavano commenti positivi sui social media, indirizzavano le conversazioni online e aiutavano la censura segnalando i contenuti più controversi. Il governo cinese utilizza da anni (in Occidente se n’è cominciato a parlare attorno al 2008-2009) enormi quantità di persone per controllare e manipolare il discorso online: questi funzionari sono chiamati wumao, che significa 50 centesimi, perché inizialmente venivano pagati 50 centesimi di yuan (al cambio attuale circa 6 centesimi di euro) per ciascun commento positivo.

Il New York Times e ProPublica hanno ottenuto un tariffario aggiornato e riferito alla città di Guangzhou, nel sud della Cina, che mostra, almeno in questo singolo caso (ma non è specificato se il tariffario sia mai stato applicato), un aumento importante dell’inflazione, perché i funzionari sarebbero pagati 160 yuan (circa 20 euro) per un post lungo almeno 400 parole, e 2,5 yuan (circa 30 centesimi di euro) per ogni segnalazione di commento negativo.

– Leggi anche: Com’è finita a Wuhan

Quanto questo sistema sia sofisticato lo mostrano anche i documenti trafugati alla società Urun, che produce software che consentono di automatizzare molti processi legati alla censura e alla propaganda. Un software creato da Urun, per esempio, consente di monitorare i trend online e di gestire in massa gli account falsi sui social media per diffondere la propaganda. Urun ha sviluppato anche un’app che i commentatori possono scaricare per lavorare con lo smartphone, oltre che una specie di gioco per vedere quali commentatori sono più efficaci nel loro lavoro di propaganda (il tariffario qui sopra viene dai documenti di Urun).

Paul Mozur, uno dei giornalisti del New York Times che si sono occupati dell’inchiesta, in un thread su Twitter ha aggiunto alcuni particolari non presenti nell’articolo, scrivendo tra le altre cose di essere rimasto «sconvolto» dal livello di ingegnosità usato dalla Cina nella manipolazione di internet mostrato nei documenti trafugati. Mozur vive in Cina e come corrispondente si occupa da anni di internet, di censura e di propaganda. Tra le altre cose, Mozur mostra il livello di dettaglio con cui la burocrazia cinese documenta la sua attività di censura: gli uffici locali della CAC producono quotidianamente numerosi rapporti da inviare alla sede centrale, in cui elencano uno per uno tutti gli account, tutti i siti, tutti i messaggi chiusi o cancellati, oltre che tutte le attività di propaganda.

Come scrivono il New York Times e ProPublica, è impossibile dire se una circolazione più libera delle informazioni nelle prime settimane di diffusione del coronavirus avrebbe cambiato l’andamento di quella che poi si è rivelata una pandemia terribile a livello globale. Dai documenti risulta che l’obiettivo del lavoro di censura e propaganda non era soltanto quello di evitare il panico, ma anche di dare l’impressione che l’epidemia fosse meno grave, e la risposta del governo più efficiente.

Come nota anche Mozur su Twitter, a mesi di distanza il regime è riuscito nel suo intento: Li Wenliang è praticamente dimenticato e attorno alla gestione della crisi da parte del governo cinese si è creato un consenso molto positivo tra la cittadinanza, favorito anche dal fatto che le misure severe adottate dopo il primo lockdown cinese sono riuscite a evitare un ritorno del contagio nel paese.