I divieti sul traffico di animali selvatici hanno anche controindicazioni

Alcuni esperti sostengono che misure internazionali come quelle sui pangolini e l'avorio finiscano per rafforzarne il commercio illegale, e propongono delle alternative

Una pelle di pangolino e altre parti di animali selvatici commerciate in modo illegale esposti a Mong La, in Myanmar, il 17 febbraio 2016 (Taylor Weidman/Getty Images)
Una pelle di pangolino e altre parti di animali selvatici commerciate in modo illegale esposti a Mong La, in Myanmar, il 17 febbraio 2016 (Taylor Weidman/Getty Images)

Fin dal 1977 esiste un divieto internazionale sul commercio di rinoceronti neri e parti del loro corpo, ma nonostante questo tra il 1960 e il 1995 il loro numero diminuì del 98 per cento, raggiungendo i minimi storici a metà degli anni Novanta. Il bracconaggio infatti non è mai finito, anche perché già nei due anni successivi all’introduzione del divieto il prezzo dei corni di rinoceronte sul mercato illegale aumentò di dieci volte, rendendo il contrabbando, seppur più rischioso, molto remunerativo.

Il più recente divieto sul commercio internazionale delle anguille europee, introdotto nel 2010, non ha risolto il rischio di estinzione della specie, che viene trafficata illegalmente dalla Spagna, dal Portogallo e dalla Francia verso la Cina e il Giappone, dove è molto richiesta per il consumo alimentare: nel 2019 l’Interpol ha stimato che fino a 350 milioni di anguille siano esportate illegalmente in Asia ogni anno.

Di casi simili ce ne sono altri. Nel 1994, l’anno prima che il divieto sul commercio internazionale delle tartarughe egiziane entrasse in vigore, circa la metà degli esemplari adulti presenti in natura fu venduto, proprio in previsione dell’imminente divieto. Il problema riguarda anche specie vegetali: le restrizioni del 2013 al commercio di alcune specie di Dalbergia, il genere di alberi da cui si ottiene il pregiato legno di palissandro, le hanno rese le specie viventi più trafficate illegalmente nel mondo.

Vietare la vendita e l’acquisto di animali selvatici a livello internazionale, in generale, è relativamente facile a dirsi, ma spesso ben più difficile a farsi, e secondo alcuni esperti di conservazione delle specie animali e vegetali ha delle controindicazioni, come mostrano questi esempi. Fino a essere controproducente.

Un articolo pubblicato di recente su Knowable, una rivista di divulgazione scientifica, riassume e spiega il punto di vista di questi esperti. Uno di loro è Brett Scheffers, ecologo dell’Università della Florida: «Se un prodotto diventa più raro, i prezzi e la domanda aumentano. Le specie così vengono colpite fino all’estinzione». Questo perché anche se c’è un divieto non è detto che le risorse della polizia e delle altre autorità incaricate di fare controlli siano sufficienti per impedire i traffici illegali, aggiunge Michael ‘t Sas-Rolfes, economista dell’Università di Oxford specializzato nel commercio di specie selvatiche.

Il suo collega Dan Challender, che si occupa in particolare di pangolini, teme che per gli stessi motivi anche il commercio di questi animali aumenterà nonostante il divieto internazionale del 2016 – che riguarda otto specie di pangolini, molto richieste in alcuni paesi asiatici sia per la carne che per le scaglie, usate nella medicina tradizionale cinese. Negli ultimi anni i sequestri di grosse quantità di scaglie di pangolini trafficate illegalmente sono aumentati, cosa che lascia pensare che in generale lo sia anche il commercio.

Secondo Scheffers, ‘t Sas-Rolfes, Challender e altri esperti il problema è che la principale strategia adottata finora per evitare che nuove specie viventi si estinguano a causa del commercio della loro carne e di altre parti dei loro corpi non è abbastanza efficace.

Questa strategia è portata avanti principalmente dalla Convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate di estinzione (CITES), che esiste dal 1973 e riunisce 182 paesi del mondo. In modi diversi, protegge più di 38mila specie di piante e animali. Oltre a decidere di vietare del tutto il commercio internazionale di alcune specie (anche se poi i divieti devono essere recepiti singolarmente dai vari paesi) può anche solo porvi dei limiti, introducendo quote massime di animali o piante che possono essere vendute. La CITES si riunisce ogni due o tre anni – l’ultima volta è stata l’anno scorso, la prossima dovrebbe essere nel 2022 – e da una volta all’altra decide se inserire o togliere specie dalla lista. Perché venga decisa una protezione di qualche genere per una specie è necessario che uno dei paesi membri la proponga: poi se due terzi dei paesi della CITES votano a favore, i singoli paesi si impegnano a introdurre leggi apposite.

– Leggi anche: Un milione di specie di animali e piante rischia l’estinzione

Negli anni molte decisioni della CITES hanno avuto successo nel difendere specie in pericolo. Ad esempio, il divieto sul commercio dell’arapaima gigante (o pirarucu), il più grande pesce squamato d’acqua dolce del mondo, che vive nei fiumi dell’Amazzonia e arriva a oltre 3 metri di lunghezza. Il divieto fu introdotto nel 1975 dopo che negli anni Sessanta la popolazione di arapaima era calata moltissimo a causa dell’eccesso di pesca: da allora le popolazioni sono molto cresciute in alcune zone.

Un altro caso di successo è quello che riguarda la vigogna dell’Argentina, un animale selvatico che somiglia a lama e alpaca. L’anno scorso, dopo 50 anni, è stato eliminato il divieto di commerciarle perché la loro popolazione si era ripresa a tal punto da rendere la caccia nuovamente sostenibile. Sempre nel 2019 è stato deciso di permettere, con un sistema di quote, anche il commercio internazionale al coccodrillo americano, che vive in Messico, e che era vietato dal 1975.

Molte organizzazioni che si occupano di difesa della natura ritengono che le decisioni della CITES siano uno degli strumenti più importanti a loro disposizione ma, come dicevamo, c’è chi non è d’accordo. Knowable ha intervistato anche Sabri Zain di TRAFFIC, un’organizzazione legata al WWF che cerca di rendere il commercio di specie selvatiche più sostenibile per venire incontro alle comunità che in alcuni paesi ne sono dipendenti. Secondo Zain la CITES si affida troppo ai divieti quando invece dovrebbe salvaguardare la natura pensando anche ai bisogni delle persone: in questo modo le sue direttive sarebbero più efficaci – in quanto più rispettate – anche nella protezione di animali e piante.

Spesso infatti non viene studiato abbastanza il contesto nel quale le specie a rischio sono commerciate, considerando fattori come l’andamento dei prezzi, i volumi di vendita, le preferenze dei consumatori e le attitudini sociali e culturali nei confronti delle specie selvatiche. Per questo può essere difficile farsi un’idea delle possibili conseguenze di un divieto totale e non è sempre chiaro se introdurlo sia meglio di applicare un sistema di quote, o il contrario.

Per altre organizzazioni, tra cui TRAFFIC, i divieti totali hanno spesso l’effetto di spingere nell’illegalità alcune persone la cui sopravvivenza è legata al commercio delle specie selvatiche, senza davvero salvaguardare le specie animali e vegetali. Per Zain l’introduzione di un divieto totale è sempre un fallimento perché significa che il problema non è stato risolto dall’azione combinata di un sistema di quote e di forme di sostegno alle persone che vivono del commercio della specie in questione.

In alcuni casi inoltre non ci sono semplicemente abbastanza informazioni disponibili sulle popolazioni di animali selvatici. Ci sono animali particolarmente noti, come gli elefanti africani, per cui esistono sofisticati sistemi di monitoraggio per tenere sotto controllo le popolazioni e i casi di bracconaggio, aggiornando costantemente una banca dati condivisa, ma si tratta di eccezioni. La CITES non ha abbastanza risorse per fare la stessa cosa con tutte le specie a rischio d’estinzione che vengono commerciate, anche perché molti dei paesi in cui vivono hanno a loro volta poche risorse economiche da impiegare nella difesa della natura.

Secondo alcuni gruppi di difesa della natura, come Born Free, un’organizzazione britannica, il commercio delle specie selvatiche non sarà mai sostenibile per le popolazioni animali perché i mercati legali permettono di vendere sottobanco anche esemplari ottenuti illegalmente. Ad esempio in Cina, fino al 2017, quando il commercio interno di avorio divenne illegale, zanne di elefante ottenute lecitamente erano vendute fianco a fianco ad altre derivanti dalle attività dei bracconieri.

Cos’altro si potrebbe fare?
Michael ‘t Sas-Rolfes ha pensato una serie di iniziative che secondo lui potrebbero contribuire a difendere le specie selvatiche che vengono commerciate in aggiunta alle decisioni della CITES. La prima è di fornire alle guardie forestali adeguati software di monitoraggio – nel 2011 ne è stato sviluppato uno, lo Spatial Monitoring and Reporting Tool – che permettano di sorvegliare in modo più efficace le riserve naturali per evitare casi di bracconaggio. Questo tipo di strumenti ha consentito di aumentare del 67 per cento i controlli eseguiti in alcune aree della Nigeria, rallentando significativamente la scomparsa dei gorilla.

La seconda proposta di ‘t Sas-Rolfes è di diffondere sul mercato dei pezzi di animali selvatici dei falsi, ad esempio corni di rinoceronte finti, prodotti usando crini di cavallo. Questo permetterebbe di far scendere i prezzi dei corni (e in futuro delle scaglie di pangolino: c’è un’azienda americana che sta cercando di produrne di sintetiche) e dunque ridurre la caccia illegale. Tuttavia questi manufatti non sono ancora prodotti in grande quantità e non sono mai stati messi alla prova.

– Leggi anche: L’estinzione delle piante

La terza proposta di ‘t Sas-Rolfes è quella più controversa: permettere l’allevamento in cattività di alcune specie, come leoni e orsi, per poi consentirne la vendita. In Sudafrica lo si è fatto con i leoni: vengono venduti in Cina e in altre parti del sud-est asiatico, dove parti del loro corpo sono usate per la produzione di farmaci e simili. Tuttavia questa pratica è molto criticata, non solo per le condizioni di vita degli animali, ma anche perché permettere il commercio di certi animali ridurrebbe lo stigma sul loro sfruttamento commerciale, potenzialmente aumentandone la domanda.

L’ultima proposta è che la CITES collabori con altre organizzazioni internazionali che si occupano di salvaguardia della natura per coinvolgere di più le comunità umane che fanno affidamento sul commercio di specie selvatiche. A oggi infatti non c’è una grande comunicazione tra la CITES e queste comunità, cosa che secondo Scheffers è uno dei problemi principali della CITES. Se gli sforzi di conservazione delle specie fossero condivisi, potrebbero essere più efficaci.