• Mondo
  • Martedì 22 settembre 2020

Theresa May ce l’ha con Boris Johnson

La ex e l'attuale primo ministro britannico si stanno scontrando su Brexit, perché la prima non accetta di violare il diritto internazionale, il secondo lo ha proposto in una legge

(Christopher Furlong/Getty Images)
(Christopher Furlong/Getty Images)

Lunedì Theresa May, ex prima ministra britannica e ora parlamentare del Partito Conservatore, ha criticato duramente l’attuale capo del governo del Regno Unito, Boris Johnson, che fa parte del suo stesso partito. In un discorso tenuto alla Camera dei Comuni, la camera bassa del Parlamento britannico, May ha accusato il governo di agire in maniera «sconsiderata» e «irresponsabile» nelle trattative in corso su Brexit, riferendosi in particolare alla possibilità che Johnson violi alcune clausole del Withdrawal Agreement, cioè l’accordo stretto l’anno scorso con l’Unione Europea.

Il governo britannico aveva riconosciuto pubblicamente pochi giorni fa la volontà a violare parte dell’accordo: una cosa che avrebbe pochi precedenti in Europa e sarebbe una probabile violazione del diritto internazionale, con diverse conseguenze nei rapporti futuri tra Regno Unito e Unione Europea.

May non è solita attaccare pubblicamente e in maniera così dura il suo successore al governo: per questo le sue parole sono state viste come un segnale dell’insofferenza dell’ala più moderata del partito verso la linea di negoziati su Brexit che sta adottando Johnson con l’Unione Europea.

I negoziati in corso riguardano i futuri accordi commerciali tra Unione Europea e Regno Unito, cioè quelli che regoleranno un pezzo di rapporti bilaterali a partire dal gennaio 2021, quando il Regno Unito lascerà anche il mercato unico e l’unione doganale (la “Brexit politica”, diciamo così, è già avvenuta il 31 gennaio di quest’anno). Le due parti avevano firmato un accordo, trovato dopo lunghissimi e faticosissimi negoziati: il Withdrawal Agreementche stabiliva le regole generali dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea e scongiurava il temuto scenario del cosiddetto “no deal“, l’uscita senza accordo, considerato disastroso da moltissimi osservatori.

– Leggi anche: Cosa c’è nell’accordo su Brexit

Dopo anni di litigi interni, divisioni e defezioni, le tensioni all’interno del Partito Conservatore britannico si sono nuovamente acuite a inizio settembre, quando il governo guidato da Johnson ha annunciato una riforma del mercato interno che, se approvata, potrebbe violare alcuni principi contenuti nel Withdrawal Agreement. Il problema nasce dal fatto che il Withdrawal Agreement era stato possibile perché Johnson aveva ceduto su una serie di aspetti che riguardano il confine tra Irlanda e Irlanda del Nord.

Fin dall’inizio dei negoziati, l’Unione Europea aveva insistito per non costruire una frontiera tra i due paesi, rimossa solo nel 1997 con gli accordi di pace del Good Friday, quelli che avevano messo fine alle violenze che avevano segnato per 30 anni la storia dell’Irlanda del Nord, i cosiddetti Troubles. Per l’Unione Europea, l’Irlanda del Nord (che fa parte del Regno Unito) avrebbe dovuto rimanere allineata alle leggi europee in materia di dazi e circolazione di beni e servizi, per evitare la creazione di un confine rigido. L’allora governo di Theresa May giudicò questa eventualità una inaccettabile violazione dell’integrità territoriale del Regno Unito, perché avrebbe creato differenze di trattamento tra Irlanda del Nord e il resto del Regno Unito; il successivo governo, guidato da Johnson, aveva invece accettato le richieste europee, definendo «grandioso» il compromesso trovato.

A un anno di distanza, però, Johnson sembra avere cambiato idea: con la proposta di legge annunciata a settembre, il primo ministro britannico ha rimesso in discussione il Withdrawal Agreement, dicendo di non voler rispettare alcune clausole contenute nell’accordo.

Il Withdrawal Agreement, per esempio, prevede che il Regno Unito rispetti le leggi europee sugli aiuti di stato per quanto riguarda i sussidi statali alle aziende nordirlandesi, per evitare che facciano concorrenza sleale a quelle irlandesi; la legge proposta da Johnson prevede che il governo britannico possa scegliere se notificare o meno all’Unione Europea l’esistenza di alcuni sussidi. Il Withdrawal Agreement prevede inoltre che le aziende nordirlandesi debbano seguire alcuni passaggi burocratici per spedire i propri beni nel resto del territorio britannico: la nuova legge sostiene che questi passaggi non siano necessari.

L’Unione Europea ha fatto capire che se il Regno Unito violerà il Withdrawal Agreement non ci saranno più le basi per continuare a discutere di un accordo commerciale (su cui comunque le due parti sono ancora molti distanti su diversi temi, dagli aiuti di stato alle quote della pesca nel mare britannico).

– Leggi anche: La Francia rivuole il Parlamento Europeo

Non è chiaro se Johnson stia proponendo questi cambiamenti per tattica, quindi sperando di ottenere qualcosa di più nei negoziati, o per convinzione, spingendo volutamente il Regno Unito verso l’uscita completa dall’Unione Europea senza accordo commerciale. Il problema è che uscire definitivamente dall’Unione Europea senza un accordo sarebbe disastroso per l’economia britannica: da un giorno all’altro sui prodotti britannici sarebbero imposti pesanti dazi che farebbero aumentare notevolmente il loro prezzo finale, rendendoli molto meno competitivi. Un’automobile prodotta nel Regno Unito, per esempio, potrebbe costare in media tremila euro in più. Dato che il Regno Unito esporta molti dei propri beni nei paesi dell’Unione Europea – parliamo del 46 per cento delle esportazioni totali – le conseguenze sarebbero potenzialmente catastrofiche per interi settori dell’economia britannica.

Per ora le mosse di Johnson hanno provocato due conseguenze: allontanare ulteriormente le posizioni britanniche da quelle europee, e far arrabbiare diversi membri influenti del Partito Conservatore, soprattutto quelli che come May avrebbero concluso un accordo su Brexit diverso dall’attuale Withdrawal Agreement. 

Per evitare una rottura totale all’interno del partito, giovedì scorso Johnson ha annunciato un emendamento alla sua proposta di legge. L’emendamento prevede che l’applicazione della parte più controversa della legge, quella che dà al governo il potere di violare i termini del Withdrawal Agreement, debba essere approvata dal Parlamento, il quale potrebbe bloccarla. Iain Watson, giornalista politico di BBC, ha scritto che la proposta di Johnson potrebbe avere risolto il problema delle tensioni nel partito nel breve termine, ma non quelle a lungo termine: soprattutto perché il Parlamento britannico sarebbe comunque chiamato a votare per accettare una violazione del diritto internazionale, scenario che May e altri conservatori ritengono inaccettabile.

Johnson non ha mostrato infatti la volontà di fare passi indietro nei negoziati con l’Unione Europea, né di riconsiderare la possibilità di violare il Withdrawal Agreement. Questa linea, oltre a spingere il Regno Unito verso una Brexit senza un accordo commerciale, potrebbe indebolire in maniera significativa la rispettabilità e l’autorevolezza del paese a livello internazionale, dove il rispetto degli accordi è una delle regole fondamentali della convivenza tra stati.