«Non esiste film migliore, nella storia, sulla criminalità organizzata»

Dal momento in cui fu presentato trent'anni fa a Venezia, fu chiaro che "Quei bravi ragazzi" non era un film come gli altri

Il 9 settembre 1990 fu presentato a Venezia Quei bravi ragazzi, diretto da Martin Scorsese. Un film di gangster, tratto dal libro Il delitto paga bene di Nicholas Pileggi e basato sui racconti del mafioso e poi collaboratore di giustizia Henry Hill. Con Ray Liotta, Robert De Niro e Joe Pesci. Quell’anno la giuria di Venezia non ritenne di assegnare il Leone d’oro a Quei bravi ragazzi, preferendo Rosencrantz e Guildenstern sono morti. Ma in molti si resero conto subito che Quei bravi ragazzi era un film come pochissimi altri.

Uno fu Brian De Palma, che dopo averlo visto disse a Scorsese: «Hai fatto Toro Scatenato, il più bel film degli anni Ottanta. Sono appena iniziati i Novanta e hai già fatto il più bel film di questo decennio». Un altro fu il critico cinematografico Roger Ebert, che dopo averlo visto scrisse:

Per due giorni, dopo la fine di Quei bravi ragazzi, l’umore dei suoi personaggi è rimasto con me, rifiutandosi di andarsene. Era rimorso e rimpianto, di stupide e rapide decisioni che portano a esistenze rovinate; ed era lealtà trasformata in tradimento. E insieme c’era un elemento di furtiva nostalgia, per dei tempi brutti che non dovrebbero essere rimpianti, ma che lo erano.

La maggior parte dei film, anche di quelli grandi, si dissolve come nebbia una volta che te ne torni nel mondo reale; lasciano dietro ricordi, ma la loro realtà sbiadisce velocemente. Non questo film, che mostra il miglior regista americano al suo meglio. Non esiste film migliore, nella storia, sul crimine organizzato – nemmeno Il padrino, sebbene i due non si possano davvero comparare.

Ebert proseguì la sua recensione con una sintesi della trama e raccontando un po’ la storia di Hill e di Pileggi, coautore con Scorsese di una sceneggiatura «che a volte diventa come un documentario». Torna poi a parlare della regia di Scorsese («il regista giusto – l’unico possibile, anzi – per questo tipo di materiale») e di come la vita avesse fornito a Scorsese gli strumenti necessari per fare Quei bravi ragazzi. Ebert spiegò di conoscere Scorsese da 23 anni e scrisse che in tutte le conversazioni che i due avevano avuto, a un certo punto Scorsese finiva sempre col tirare fuori dalla memoria «l’immagine di se stesso, da ragazzo, che dalla finestra guardava i gangster del quartiere»; ricordando quindi l’importanza di una simile scena a inizio film.

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Parlando dello strafamoso, fenomenale e citatissimo piano sequenza del Copacabana, il night club a cui il protagonista e la sua fidanzata accedono dal retro, con un tavolo che quasi magicamente appare davanti a loro nel locale affollatissimo, Ebert scrisse: «Questo è il potere».

Della colonna sonora, Ebert scrisse che Scorsese «trova il suono preciso per sottolineare ogni momento» e – dopo essere andato persino più in là di De Palma dicendo anche che Taxi Driver era stato il miglior film degli anni Settanta – aggiunse: «Scorsese non era mai entrato così bene nella testa di qualcuno come riesce a fare in uno dei momenti finali di Quei bravi ragazzi» (quello della paranoia e dell’elicottero).

La recensione di Ebert finiva così:

Quello che davvero mi ha preso – quello che rende un film un grande film – è che ho capito cosa provava Henry Hill. Così come sua moglie viene assorbita dal giro della mafia al punto da condividerne i valori, così il film fa quasi un incantesimo. Si può quasi pensare, a volte, ai personaggi come dei veri amici. Il loro cameratismo è così forte, la loro lealtà così certa. […] Ma alla fine la loro mitologia cede e arriva il senso di colpa: quello vero, quello che un cattolico come Scorsese capisce intimamente. E il senso di colpa non è per aver fatto peccati, è per voler continuare a farli.