Cosa si dice sulla riapertura della scuola

Abbiamo chiesto a insegnanti, presidi, genitori ed esperti cosa pensano delle linee guida diffuse dal governo: ci sono molte perplessità

di Arianna Cavallo

(Cecilia Fabiano/ LaPresse)
(Cecilia Fabiano/ LaPresse)

L’opinione più condivisa sulle linee guida per la riapertura delle scuole a settembre – il primo per il recupero e il 14 per le lezioni – presentate dal ministero dell’Istruzione il 26 giugno, è che siano arrivate troppo tardi. È una convinzione che mette d’accordo genitori, insegnanti, dirigenti scolastici e amministratori locali: i primi si trovano sospesi nell’incertezza di come si tornerà davvero in aula, gli altri stanno lavorando in fretta per recuperare spazi dove fare lezione, avviare le ristrutturazioni necessarie, chiedere permessi, reperire nuovo personale e organizzare eventuali turnazioni e ripensamenti di orari. «C’è poco tempo, questo piano doveva essere pubblicato due mesi fa: ora restano solo due mesi, e con agosto di mezzo», dice Antonello Giannelli, presidente dell’Associazione nazionale presidi (ANP).

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Le linee guida riprendono in buona parte le indicazioni del Comitato tecnico scientifico (CTS), che erano state pubblicate il 28 maggio, due settimane dopo che la ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina aveva detto che l’anno scolastico non si sarebbe concluso in presenza e che il rientro a scuola sarebbe avvenuto soltanto a settembre. La decisione era stata presa per ragioni di sicurezza, ma molti avevano criticato il governo: in un momento in cui il resto del paese stava ripartendo, e in gran parte d’Europa le scuole venivano riaperte, tenere le scuole chiuse era sembrato a molti un modo per rimandare il problema anziché affrontarlo.

La questione dei tempi
L’impressione è proseguita e l’assenza di un piano sulla scuola è stata criticata da gruppi di genitori, sindacati, insegnanti ed esperti. «Abbiamo visto che per il governo la scuola non è una priorità», ha detto al Post anche Grazia Guazzaloca, tra i fondatori di Diritto alla scuola, un gruppo nato ad aprile durante il lockdown. Il timore è che al primo ritorno del virus la scuola verrà subito sacrificata: «La scuola non è la prima cosa che deve chiudere soltanto perché, se c’è un focolaio o la situazione epidemiologica peggiora, è la soluzione più facile», dice Guazzaloca.

Il piano del governo ha risposto solo parzialmente ai problemi noti, anche perché molti di questi, pur essendo dovuti all’emergenza di contenere il coronavirus, sono strutturali e si trascinano da decenni – dagli edifici scolastici troppo piccoli e vecchi, al sistema di assunzioni dei docenti per graduatorie – e non si possono risolvere in tre mesi. D’altra parte c’è chi fa notare che le scuole sono chiuse da marzo (in Lombardia da febbraio) e che la ministra Azzolina aveva nominato soltanto a fine aprile, dopo quasi due mesi, un Comitato di esperti presieduto da Patrizio Bianchi, ex rettore dell’università di Ferrara, per immaginare la riapertura delle scuole. Il comitato ha consegnato al ministero un rapporto di cui non si hanno tracce.

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«Si poteva far lavorare dirigenti, insegnanti ed enti locali già ad aprile», ha spiegato Marco Campione, esperto di politiche pubbliche per l’istruzione, autore di un podcast dedicato alla scuola e, insieme a Emanuele Contu, del libro Liberare la scuola. «È un peccato», aggiunge, «perché invitare le scuole a riflettere su cosa devono essere a settembre sarebbe stata un’occasione per non buttare via l’esperienza di questi mesi». Anche secondo Laura Scalfi, dirigente dell’istituto Giuseppe Veronesi di Trento e referente di Azione (il partito di Carlo Calenda) in Trentino, «il governo doveva pensare a che tipo di scuola avremmo voluto. I problemi sono il ritardo e la mancanza di visione su come tornare».

Scalfi accusa il governo di essere stato assente nonostante la richiesta di linee guida chiare già ad aprile, ma sottolinea anche la mancanza di visione di molti istituti, poco abituati all’autonomia: «Chi ha lavorato immaginandosi cosa sarebbe successo partirà bene, chi è rimasto in attesa partirà come prima o peggio: il divario tra le scuole e gli studenti aumenterà».

Il ritardo è aggravato dalla natura stessa delle linee guida, che non sono un elenco preciso e dettagliato di norme da seguire, ma danno ampia autonomia alle scuole e agli enti locali. Una prima bozza del piano, circolata a pochi giorni dalla proposta definitiva, era stata infatti molto criticata per l’eccessiva vaghezza: Giannelli, il presidente dell’ANP, aveva detto che «si demanda tutto a dei tavoli regionali composti da tantissime persone che avranno difficoltà a dare risposte concrete e operative». Stefano Bonaccini, presidente dell’Emilia-Romagna e della Conferenza delle Regioni, aveva definito le linee guida «irricevibili», chiedendo risorse (poi arrivate con la promessa dello stanziamento di un miliardo di euro), un aumento dell’organico dei docenti e del personale ATA (amministrativo, tecnico e ausiliario, ovvero tutte le persone che lavorano nella scuola ma che non sono insegnanti) e un piano per rafforzare e riorganizzare i trasporti.

Il governo è stato anche accusato di limitarsi a riprendere le indicazioni sulla sicurezza del CTS e di scaricare le scelte e la gestione della riapertura sui presidi e sugli enti locali. Il rischio, dice Guazzaloca, «è anche che ogni preside farà ciò che crede e ciò che può con priorità diverse, ma il diritto all’istruzione è uguale per tutti: siamo favorevoli all’autonomia ma il governo deve assumersi la responsabilità di garantire a tutti una istruzione equa». L’enfasi sulle autonomie scolastiche però «non potrebbe essere diversa», sostiene Campione e con lui molti altri esperti, tra cui Mauro Piras, insegnante di liceo e tra i fondatori del gruppo Condorcet, impegnato per il rinnovamento della scuola. «L’impianto è fondato sull’autonomia e sulla sussidiarietà ed è un impianto giusto», spiega, «anche se molti dicono che sia uno scaricabarile. Ci vogliono molta flessibilità per gestire la situazione: il problema è che, dato questo impianto, il documento è tardivo e poteva già uscire a maggio».

Il sottosegretario all’Istruzione Giuseppe De Cristofaro ha spiegato al Post le ragioni del ritardo: «Prima c’era da gestire gli esami di maturità e il “decreto scuola“, presentato in parlamento con un punto su cui non c’era accordo, quello sul concorso straordinario, mentre nel frattempo si lavorava alle linee guida».

La questione degli spazi
Sara Funaro, assessora all’Educazione, Università e Ricerca del comune di Firenze, racconta che ora «la criticità più grossa è reperire gli spazi». Il piano del governo prevede che ci sia una distanza di almeno un metro tra le cosiddette “rime buccali”, cioè le bocche degli studenti, e questo significa che i banchi siano distanziati di almeno 35 centimetri; a questo si aggiunge la distanza di almeno due metri tra l’insegnante e i banchi della prima fila. Per dare un’idea, in un’aula di 36 metri quadrati non possono stare più di 26 alunni, ma molte aule – soprattutto quelle delle scuole più vecchie, costruite prima degli anni Settanta – sono troppo piccole per contenere le classi. La ministra Azzolina ha spiegato che questo problema riguarda probabilmente il 15 per cento degli studenti: 1,2 milioni. La viceministra Anna Ascani ha specificato che «le criticità sono concentrate soprattutto nelle scuole superiori dei grandi centri, direi circa un 20 per cento di queste scuole».

Per risolvere il problema delle aule troppo piccole, o delle classi troppo numerose, le scuole hanno diverse possibilità: possono reperire nuovi e più grandi spazi all’interno delle strutture per accogliere le classi, fare dei piccoli lavori per ampliare le aule, trovare spazi esterni all’edificio scolastico, suddividere le classi in gruppi più piccoli, ricorrere alla turnazione (per esempio dividendo la classe e facendo lezione a un gruppo solo la mattina e all’altro il pomeriggio), ridurre l’orario delle lezioni per facilitare la turnazione (per esempio passando da 60 a 40 minuti) e modificare l’orario scolastico, per esempio facendo lezione anche il sabato.

Tutte queste modifiche si portano dietro numerosi problemi: alcuni senza risposta da parte del governo (come la difficoltà a reperire i docenti e il personale scolastico necessario e occuparsi di più classi e aule), altri aggravati dal ritardo con cui sono arrivate le linee guida. «Siamo stretti con i tempi dei lavori dell’edilizia, e anche sull’organizzazione delle classi e dell’organico non ci sono certezze», commenta Laura Galimberti, assessora all’Istruzione del comune di Milano.

La viceministra Ascani ha assicurato che sono già stati censiti tremila edifici scolastici non utilizzati ma in condizioni di sicurezza, che saranno messi a disposizione per gli studenti, mentre gli enti locali sono al lavoro per individuare altri edifici adatti. Il governo ha stanziato con il “decreto rilancio” 330 milioni di euro agli enti locali per mettere le scuole in sicurezza (i comuni sono responsabili per le scuole dell’infanzia e del primo grado, la provincia o la città metropolitana per quelle del secondo grado).

L’assessora del comune di Firenze Funaro ha raccontato «che dalla settimana scorsa, insieme ai dirigenti scolastici, stiamo facendo una mappatura e una simulazione classe per classe per capire quanti bambini ci stanno nelle varie aule e se all’interno della scuola ci sono spazi che si possono recuperare, come auditorium o biblioteche. Il problema grosso è avere spazi immediatamente utilizzabili, non si potrà ristrutturare molto». L’assessora Galimberti di Milano aveva già fatto dei sopralluoghi «prima dell’uscita delle linee guida, ma non potevano essere definitivi perché non era indicato in modo preciso lo spazio del distanziamento».

Molte scuole si sono organizzate autonomamente, come racconta Franca Corino, membro dello staff di direzione dell’Istituto Comprensivo Pacchiotti-via Revel di Torino: «abbiamo nominato un comitato tecnico che ha fatto una ricognizione degli spazi, ma nel corso di questo mese le ipotesi su come organizzare le classi sono cambiate insieme alle linee guida. Le nostre aule sono abbastanza capienti e dovrebbero consentire le lezioni in presenza degli alunni; laddove non fosse possibile, la scuola secondaria ha previsto un’alternanza della didattica a distanza con lezioni di 45 minuti, per non tenere troppo i ragazzi davanti allo schermo».

Presidi, insegnanti e amministratori sono invece scettici sulla possibilità, suggerita dalle linee guida, di appoggiarsi a teatri, biblioteche, musei e cinema per fare attività didattica: è una soluzione estemporanea ma non strutturale, «se ho un’aula troppo piccola e devo fare didattica fuori dalla scuola mi serve uno spazio da dedicare in modo permanente alla classe» dice Giannelli.

L’aumento delle aule, la suddivisione delle classi e la turnazione si portano dietro grossi problemi legati all’organico, che secondo le raccomandazioni del comitato presieduto da Bianchi dovrebbe aumentare del 10-15 per cento. Suddividere le classi senza aumentare il numero dei docenti e del personale ATA è considerato molto complicato, se non impossibile. I docenti della scuola primaria fanno lezione per 24 ore settimanali, quelli delle superiori 18: ai secondi si può chiedere di fare qualche ora in più ma per i primi è più difficile. Diminuendo l’orario delle lezioni per garantire la turnazione si tampona un po’ il problema ma non lo si risolve: se le lezioni diventano di 45 minuti anziché 60, si può recuperare una lezione ogni tre.

La questione del personale
Il primo ostacolo è quello delle risorse, a cui il ministero ha cercato di rispondere stanziando il già citato miliardo in più, che si aggiunge ai precedenti 1,5 miliardi previsti per la scuola nel “decreto rilancio”. Anche avendo fondi sufficienti, però, non ci sono abbastanza insegnanti da assumere. Molte graduatorie, soprattutto al nord – dove ci sono meno docenti che al sud ma più alunni – sono esaurite e già ora sono scoperte più di 85 mila cattedre. Questo rafforzerà il cosiddetto sistema delle “messe a disposizione” (MAD): una volta esaurite tutte le graduatorie, i presidi possono chiamare, per un anno, dei docenti che abbiano inviato un curriculum. Negli anni, da misura di emergenza è diventato un sistema diffuso e consolidato; per questo, spiega Giannelli, «chiediamo che siano i dirigenti a fare assunzioni dirette tramite un colloquio e che questo sistema sia ben regolato».

Per finire, anche qui i tempi sono stretti. Le richieste di organico vengono fatte dalle scuole all’ufficio scolastico regionale a febbraio, una volta concluse le iscrizioni: «sulla base delle classi che hai, ti si dicono quanti docenti hai diritto», spiega Mauro Piras. Le assegnazioni dell’organico per il prossimo anno scolastico si sono quindi concluse, ma ora dovranno essere riaperte vista la necessità di avere docenti in più, che potrebbero arrivare a settembre inoltrato, dopo la riapertura delle scuole.

Va risolta anche la questione del monte ore complessivo, cioè la totalità di giorni e di ore di lezione che dovranno fare gli studenti. Ogni studente deve seguire ogni anno 200 giorni di scuola e un preciso numero di ore: nella scuola primaria vanno da 24 a 30 ore settimanali, con la possibilità di richiedere il tempo pieno di 40 ore; nella secondaria varia, partendo comunque da un minimo di 29 ore. Non è chiaro se, riducendo l’orario delle lezioni, si debba mantenere il monte ore complessivo, se una lezione valga come ora indipendentemente dalla durata, o ancora se la didattica integrata a distanza (cioè l’insegnamento non in presenza, che è previsto solo alle superiori come forma integrativa) sarà valida per calcolare il monte ore. L’obiettivo è garantire a tutti gli studenti lo stesso monte ore complessivo, ma non è detto che sia possibile: questo potrebbe allargare il divario di istruzione nelle scuole e tra gli alunni.

Una vittoria di genitori e insegnanti è invece l’utilizzo della didattica a distanza, ormai nota come DAD, solamente nella secondaria di secondo grado (cioè le superiori) e in modo integrativo e non sostitutivo alle lezioni in presenza. La DAD verrà ripristinata anche nella primaria e nella secondaria di primo grado (cioè le medie) solo in caso di lockdown e chiusura della scuola. La didattica a distanza, su cui si è retto l’insegnamento da marzo in poi, è stata molto criticata perché non è sufficiente per i bambini più piccoli, richiede il coinvolgimento dei genitori ed è difficoltosa sia per molti insegnanti, che finora non erano stati adeguatamente formati, sia per gli alunni che non hanno gli strumenti necessari, come internet, tablet o computer.

La questione della sicurezza
Ci sono infine dubbi sulla sicurezza, il motivo fondamentale per cui le scuole sono rimaste chiuse così a lungo. Le linee guida del governo si rifanno alle raccomandazioni del CTS uscite a fine maggio, che richiedono misure di prevenzione e di protezione, come evitare gli assembramenti e rispettare il distanziamento fisico durante le lezioni, la mensa, i momenti di sport e ricreazione.

Inizialmente il documento raccomandava una distanza interpersonale di almeno un metro tra gli studenti calcolata da banco a banco. I presidi, guidati da Giannelli, avevano però avvertito che a quelle condizioni il distanziamento non sarebbe stato possibile almeno nel 40 per cento delle aule scolastiche. Nel piano definitivo si raccomanda invece un distanziamento di un metro tra le bocche degli studenti. Lo stesso Giannelli ha detto al Post che «andrebbe chiarita la questione sulla distanza bocca a bocca: se noi ci riferiamo a ragazzi fermi è un conto, se si muovono è un altro conto, perché per allontanarsi dal banco un alunno si avvicina all’altro e allora ci vuole una superficie più grande».

Giannelli ha perciò intenzione di chiedere al CTS se la mascherina sarà una misura di protezione precauzionale sufficiente per tenere la distanza sotto il metro quando gli alunni si muovono. Per ora l’uso della mascherina è previsto per tutti gli alunni dai sei anni in su, anche se il suo utilizzo verrà rivisto a fine agosto dal CTS: come ha spiegato al Post il sottosegretario all’Istruzione De Cristofaro, «ad agosto potrebbero toglierla se si abbassa l’indice di contagio; se peggiora potrebbe esserci una nuova valutazione del CTS anche sulla distanza tra le rime buccali [cosa che non viene però precisata nelle linee guida, ndr] ma penso che dovremmo riuscire a consentire a tutti gli studenti di tornare in classe».

Di fatto molti temono che le modifiche al distanziamento siano, come riassume Piras, «un tranquillante che non risolve il problema se la diffusione del virus sarà più virulenta, un escamotage rassicurante» e, come dice anche Campione, «un tentativo di lasciare le cose come stanno fin dove si può, e di ricorrere a spazi fuori dalla scuola soltanto per le aule troppo piccole degli edifici più vecchi».

«Il punto centrale è la prevenzione» anche secondo Cristina Tagliabue, tra i cinque fondatori di Priorità alla scuola, un movimento di genitori, insegnanti e studenti che ad aprile aveva scritto una lettera alla ministra Azzolina chiedendo la riapertura delle scuole. «Vogliamo riattivare le infermerie e i medici a disposizione della scuola perché gli insegnanti non possono farsi carico di dare i medicinali ai ragazzi. Vogliamo tamponi, la misurazione della febbre e lo screening sanitario al personale scolastico prima della riapertura». Il movimento, così come alcuni esperti, considera insufficienti anche le parti riservate ai bambini da 0 a 6 anni, dove di fatto il distanziamento fisico non è previsto e si raccomanda soltanto l’uso di mascherine e altre protezioni (come i guanti) agli educatori.

Inoltre nel piano del ministero, fa notare tra gli altri Guazzaloca, «non si parla né di tracciamento né di come reagire a eventuali piccoli focolai o problemi» e anche l’assessora Funaro spiega che «non abbiamo ancora parlato di cosa fare se ci sarà un focolaio». Non è chiaro cosa potrebbe succedere se uno studente risultasse positivo al coronavirus, se dovranno venire isolati tutti i compagni di classe e i docenti, e le altre classi in cui hanno insegnato.

Anche per questo, secondo alcuni il ministero avrebbe potuto sperimentare delle riaperture mirate da maggio a oggi, come il progetto pilota di riapertura delle scuole che aveva proposto ad aprile la sindaca di Empoli, Brenda Barnini. Lo stesso Bianchi aveva detto al Corriere della Sera: «avrei fatto delle prove tecniche di apertura in zone meno colpite o in situazioni più protette», che avrebbe consentito di avere, a settembre, le idee più chiare in caso di emergenza.

Un’altra cosa che manca è l’alleggerimento delle responsabilità penali e amministrative dei dirigenti scolastici, che in questa situazione di emergenza sono coinvolti in frenetici interventi sull’edilizia e lasciati soli a smaltire farraginose procedure. Giannelli ribadisce che l’autonomia delle scuole deve valere solo sul piano della didattica e non della sicurezza: i dirigenti devono ricevere regole chiare su come comportarsi per garantire la sicurezza di alunni e personale e «una volta applicate queste regole non devono essere più responsabili. Se il dirigente applica le regole e qualcuno si ammala, non deve avere responsabilità».

C’è infine chi critica gli errori di comunicazione da parte del ministero, con temporeggiamenti, indecisioni e bozze trapelate in modo inopportuno. Secondo Campione uno degli sbagli più grossi della ministra Azzolina è stato non «cercare di riaprire le scuole già in primavera e insistere che non si poteva riaprire le scuole perché i bambini non potevano essere distanziati, anziché dire che si poteva tornare con gli accorgimenti necessari, come igienizzare le mani e indossare la mascherina, con la garanzia che in caso di contagio la scuola avrebbe subito chiuso per contenerlo».

Nel frattempo, mentre ogni giorno salta fuori una nuova polemica, che sia l’uso mai annunciato delle barriere di plexiglas o i costi eccessivi di nuovi banchi singoli, «i presidi sono tutti impegnati perché i ragazzi tornino a scuola in sicurezza», dice Giannelli. «Non sarà facile perché il tempo è poco e bisognerà rimboccarsi le maniche: peccato perché si è forse sprecato un po’ di tempo ma siamo pronti a fare la nostra parte».