L’inquinamento dell’aria e il coronavirus

Alcune ricerche indicano una possibile correlazione tra inquinamento atmosferico e COVID-19, ma l'Istituto Superiore di Sanità invita ad attendere dati più chiari

(Joe Raedle/Getty Images)
(Joe Raedle/Getty Images)

L’inquinamento atmosferico è una delle principali cause delle malattie respiratorie al mondo, e per questo diversi ricercatori negli ultimi mesi hanno avviato studi per capire se ci possa essere un legame tra scarsa qualità dell’aria e COVID-19, la malattia causata dal coronavirus. Le loro indagini preliminari indicano un possibile legame e hanno acceso un animato confronto nella comunità scientifica, con la richiesta di raccogliere dati più certi, che richiederà diversi mesi per essere soddisfatta.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’inquinamento atmosferico causa ogni anno nel mondo la morte di circa 4,2 milioni di persone. I decessi si concentrano nelle aree più industrializzate e urbanizzate, dove le emissioni di gas inquinanti e polveri sottili sono maggiori e interessano quote della popolazione più rilevanti.

Inquinanti
Tra i principali responsabili c’è il particolato, termine che viene utilizzato per indicare l’insieme delle sostanze – solide e liquide – sospese nell’aria con un diametro fino a mezzo millimetro, prodotte sia da attività naturali (polveri, pollini) sia da quelle umane (industrie, riscaldamento, traffico stradale). Più le dimensioni delle particelle che costituiscono il particolato (PM) sono piccole, più vuol dire che si possono intrufolare nel nostro organismo, talvolta causando danni.

I PM più citati e tenuti sotto controllo da chi si occupa di qualità dell’aria sono di solito il PM10, particelle con un diametro inferiore al centesimo di millimetro (10 micrometri) e il PM2,5, con diametro inferiore ai 2,5 micrometri. È quasi sempre sulla base di questi PM nell’aria che le città e le regioni decidono, di volta in volta, se limitare il traffico soprattutto nei mesi invernali, quando a questo si aggiungono gli inquinanti dei riscaldamenti. Come avevamo spiegato più estesamente qui, ci sono poi numerosi altri inquinanti che contribuiscono a ridurre sensibilmente la qualità dell’aria, e che possono incidere sulla nostra salute.

Salute e inquinamento
L’inquinamento atmosferico è responsabile (o corresponsabile, a seconda dei casi) di numerose malattie non trasmissibili, per lo più a carico del sistema cardiocircolatorio e di quello respiratorio: infarto, ictus, asma, cancro dei polmoni, per fare qualche esempio. Negli ultimi anni è stato inoltre rilevato come un’esposizione prolungata al PM2,5 possa contribuire all’insorgenza del diabete, a ritardi nello sviluppo neurologico dei bambini e alle malattie neurologiche degenerative negli adulti e negli anziani. È invece più complicato valutare l’impatto dell’inquinamento sulle malattie trasmissibili e che interessano le vie aeree, proprio come la COVID-19.

Lo studio di Harvard
Un gruppo di ricercatori dell’Università di Harvard (Stati Uniti) ha provato a capirlo con alcuni modelli statistici, concludendo che un aumento contenuto del PM possa avere conseguenze importanti nell’epidemia da coronavirus. Lo studio – che è ancora preliminare e in attesa di una revisione alla pari da altri esperti (peer review) e va quindi preso con cautela – dice che un aumento di un microgrammo per metro cubo del PM2,5 nell’aria può comportare un aumento del 15 per cento nelle morti dovute alla COVID-19.

Per arrivare a questa conclusione, i ricercatori hanno analizzato i dati sulle malattie respiratorie in oltre 3mila contee statunitensi, notando un tasso di letalità più alto tra le persone esposte per molti anni alle sostanze inquinanti nell’aria. Gli autori ipotizzano che il legame sia dovuto al fatto che gli individui nelle zone inquinate vivono già con un rischio più alto di soffrire di malattie respiratorie e cardiache. Ci sono inoltre altri studi che hanno segnalato come l’inquinamento atmosferico possa contribuire a indebolire le capacità del sistema immunitario. Entrambi i fattori potrebbero spiegare perché molte aree con numerosi decessi da COVID-19 siano anche tra le più inquinate.

Nella maggior parte dei casi la COVID-19 causa sintomi lievi, ma negli individui più anziani e a rischio può comportare pericolose infezioni delle vie aeree profonde che evolvono in polmoniti atipiche. Nei casi più gravi, questa circostanza rende necessaria l’intubazione, per aiutare i pazienti a superare la fase acuta della malattia, e dare tempo al sistema immunitario di organizzare una risposta efficace contro il coronavirus.

La ricerca di Harvard ha dedicato particolare attenzione al caso di New York, che per diverse settimane è stata la zona con il maggior numero di casi e di morti negli Stati Uniti. Lo studio stima che se il livello di inquinamento da PM fosse stato di un microgrammo per metro cubo inferiore a quello effettivo (negli ultimi 20 anni), a Manhattan sarebbero probabilmente morte 250 persone in meno al 4 aprile, data di conclusione dello studio. A Manhattan sono finora morte oltre 1.650 persone a causa del coronavirus, nell’intera città di New York oltre 12.600.

In Italia
Uno studio condotto in Italia analizzando la situazione in Lombardia ed Emilia-Romagna si è chiesto se ci possa essere una correlazione tra i più alti tassi di letalità nelle due regioni, rispetto al resto del paese, e l’inquinamento dell’aria. La ricerca presenta diversi dati ed elementi e, seppure non arrivi a una conclusione definitiva, consiglia di tenere in considerazione l’inquinamento nel Nord Italia come un potenziale “co-fattore aggiuntivo” per gli alti livelli di letalità calcolati nella zona.

Un’altra ricerca condotta sempre in Italia ha anche analizzato la possibilità che il coronavirus si leghi ai PM, e che quindi possa circolare più facilmente tra la popolazione negli “aerosol”, cioè nelle sostanze in sospensione nell’aria di dimensioni estremamente piccole. Il tema è piuttosto controverso e finora altre ricerche non hanno evidenziato, se non in casi estremamente particolari, una circolazione del coronavirus nell’aria al di fuori delle goccioline di saliva (“droplet”) emesse dagli infetti, per esempio quando tossiscono o starnutiscono. Anche questa ricerca su coronavirus e PM è preliminare e dovrà essere sottoposta alle verifiche del caso.

Cosa dice l’ISS
Considerata la circolazione di diversi studi – anche su alcuni giornali generalisti e talvolta con titoli piuttosto enfatici e lontani dalla realtà – in Italia l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) ha pubblicato una breve analisi dei fatti finora a disposizione sul tema, concludendo che sia ancora prematuro parlare di una “correlazione tra inquinamento atmosferico e l’epidemia di COVID-19”:

Lo studio condotto dall’Università di Harvard è di sicuro interesse, ma si basa su indicazioni parziali e presenta ampie incertezze come gli autori stessi descrivono (come, ad esempio, la modalità di conteggio dei decessi per COVID-19 e la stima delle concentrazioni di PM2,5 sul territorio degli Stati Uniti basata sull’applicazione di una modellistica che necessita di aggiustamenti perché legata alla distribuzione spaziale delle postazioni di misura dell’inquinamento atmosferico).

L’ISS riconosce che i principali focolai dell’epidemia si siano sviluppati “all’interno di zone della Pianura Padana sottoposte a valori di inquinamento atmosferico elevati e piuttosto omogenei”, ma ricorda anche che altre zone vicine e ugualmente esposte a un notevole inquinamento atmosferico sono state escluse o poco interessate, per lo meno nella prima fase dell’epidemia quando il coronavirus era meno in circolazione.

Gli esperti dell’Istituto ricordano poi come in Italia le restrizioni decise dal governo per limitare il contagio abbiano portato a una significativa riduzione dell’inquinamento atmosferico, perché milioni di persone hanno smesso di muoversi ogni giorno in auto. La fase di lockdown è inoltre coincisa con l’inizio della stagione calda e di conseguenza con una riduzione dei consumi dei riscaldamenti per le abitazioni e gli uffici ancora aperti, senza contare la minore attività degli impianti industriali. L’aria è quindi migliorata a fronte di un proseguimento consistente del contagio, anche se questa conclusione appare controversa perché valuta un effetto immediato rispetto a uno di lungo periodo, come l’esposizione per anni ad aria inquinata e i conseguenti maggiori rischi per la popolazione.

L’ISS ricorda che il coronavirus si è comunque diffuso soprattutto in aree densamente abitate e dinamiche negli spostamenti, fattori da non trascurare sull’andamento dei contagi. Il Nord Italia tende inoltre ad avere più contatti con l’estero per motivi commerciali, altro elemento che può avere contribuito alla circolazione del coronavirus e al suo arrivo dall’estero.

La Società Italiana di Aerosol (IAS) – associazione che comprende ricercatori, professionisti ed esperti sul tema dell’inquinamento atmosferico – ha diffuso una nota informativa con valutazioni simili a quelle fornite dall’ISS invitando a “utilizzare la massima cautela nell’interpretazione dei dati disponibili”:

Si deve porre molta cautela, ad esempio, nel confrontare dati e trend provenienti da aree geografiche diverse del Paese e nel mescolare situazioni in cui esiste un focolaio con situazioni in cui il focolaio non è presente ed in cui sono state prese misure di contenimento diverse in tempi diversi. Il periodo di monitoraggio disponibile per l’indagine epidemiologica è ancora troppo limitato per trarre conclusioni scientificamente solide in relazione ai moltissimi fattori che influenzano il tasso di crescita del contagio.

Riaperture
Saranno necessari altri studi e approfondimenti, basati sui dati che emergeranno nei prossimi mesi, per farsi un’idea più accurata e affidabile di eventuali legami tra tassi di letalità della COVID-19 e inquinamento atmosferico. Al di là del caso specifico sulla pandemia in corso, non ci sono comunque dubbi sul fatto che l’aria inquinata faccia aumentare sensibilmente il rischio per diverse malattie. Il tema potrebbe diventare sempre più rilevante nei prossimi mesi, con la progressiva attenuazione delle misure restrittive, soprattutto nelle grandi città.

Per garantire il distanziamento fisico, i mezzi per il trasporto pubblico dovranno ridurre sensibilmente la loro capacità, evitando il sovraffollamento su autobus, tram e metropolitane. Questo, insieme al timore di essere contagiati, potrebbe indurre un maggior numero di persone a utilizzare l’automobile per gli spostamenti, causando un maggior traffico per le città e un conseguente aumento degli inquinanti nell’aria.

Consapevoli del problema, diverse amministrazioni si stanno dando da fare per ripensare la mobilità nelle loro città, offrendo percorsi più pratici e sicuri per i pedoni e per le biciclette. Il ricorso a incentivi per favorire la mobilità individuale sostenibile potrebbe aiutare a ridurre l’utilizzo delle automobili, ma intervenire su un’abitudine così radicata non sarà semplice e sarà una delle sfide più importanti per i prossimi mesi.