Le responsabilità della Cina nella diffusione del nuovo coronavirus
Il New York Times ha raccontato come e quanto le autorità del paese cercarono di nascondere e minimizzare le notizie sulla diffusione della malattia
Una ricostruzione del New York Times ha spiegato come e quanto le autorità cinesi cercarono di mettere a tacere le preoccupazioni dei medici dopo il manifestarsi dei primi casi del nuovo coronavirus (2019-nCoV) nella città di Wuhan, in una serie di azioni che rallentarono una efficace risposta alla malattia e favorirono invece il contagio.
L’articolo racconta cosa è successo nelle sette settimane trascorse dalla comparsa dei primi contagi a Wuhan – il primo caso, su cui si hanno però pochi dettagli, fu probabilmente a inizio dicembre 2019 – fino alla decisione di mettere in quarantena la città, il 23 gennaio; è il risultato di interviste fatte a una ventina di abitanti, medici e funzionari governativi, messe insieme a dichiarazioni del governo e ad articoli della stampa cinese.
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Secondo il New York Times le autorità di Wuhan e della provincia di Hubei, in cui si trova la città, hanno sottovaluto volontariamente i rischi di un’epidemia – che al momento ha causato la morte di 305 persone e ne ha contagiate più di 14.600 in tutto il mondo – e non hanno permesso agli 11 milioni di abitanti della città di proteggersi adeguatamente. La scarsa abitudine alla trasparenza delle autorità cinesi si è sovrapposta a due importanti congressi del Partito comunista cinese in corso a gennaio, che hanno spinto i politici locali e mettere sotto il tappeto le notizie sulla malattia per non offuscare il momento, tradizionalmente autocelebrativo. Così facendo, secondo alcuni esperti di sanità pubblica consultati dal New York Times, «il governo cinese ha perso la migliore occasione per impedire alla malattia di trasformarsi in un’epidemia».
La ricostruzione del New York Times inizia con il racconto di Li Wenliang, un oftalmologo che lavorava in un ospedale di Wuhan che il 30 dicembre aveva avvisato alcuni studenti della sua scuola di medicina, scrivendo nella loro chat di gruppo che alcuni pazienti si trovavano in quarantena in pronto soccorso; una persona aveva risposto chiedendo se stesse iniziando una nuova epidemia di SARS, una forma di polmonite determinata da un coronavirus che tra il 2002 e il 2003 provocò la morte di 774 persone in tutto il mondo.
Quella stessa notte, alcuni funzionari sanitari di Wuhan convocarono Li e gli chiesero perché aveva condiviso l’informazione; tre giorni dopo la polizia lo obbligò a firmare una dichiarazione in cui ammetteva di essersi comportato in modo «illegale».
Il 31 dicembre il messaggio di Li era stato condiviso fuori dalla chat del gruppo spingendo le autorità a intervenire per mantenere il controllo della situazione. La polizia disse che sette persone erano sotto indagine per aver diffuso notizie sulla malattia e in quello stesso giorno la commissione sanitaria di Wuhan fece sapere che 27 persone soffrivano di polmonite per una causa sconosciuta; aggiungeva però che non c’era bisogno di allarmarsi: «La malattia si può prevenire e controllare». Contemporaneamente le autorità avvisarono gli uffici dell’Organizzazione mondiale della sanità di Pechino che era iniziata un’epidemia.
Nel frattempo Li tornò al lavoro. Il 10 gennaio curò una donna per glaucoma, non sapendo che era stata infettata dal nuovo coronavirus, probabilmente da sua figlia. Le due donne si ammalarono e si ammalò anche Li, che ha 34 anni, un figlio e una moglie moglie incinta, e che ora è ricoverato nell’ospedale dove lavorava.
Un’altra testimonianza raccolta dal New York Times è quella di Hu Xiaohu, che vende carne di maiale al mercato del pesce di Huanan, considerato il luogo da cui si è diffuso il virus. Hu ha raccontato che a fine dicembre molti lavoratori si presentavano al mercato con una strana febbre e che alcuni erano finiti in quarantena in ospedale. L’ospedale si trova in una zona nuova di Wuhan, tra condomini e negozi frequentati dalla nascente classe media. È un «dedalo di bancarelle che vendono carne, pollame, pesce ma anche animali esotici, come rettili vivi e selvaggina considerata una vera prelibatezza da molti cinesi». Secondo un rapporto del centro per la prevenzione delle malattie di Wuhan, l’igiene del mercato era molto scarsa, l’aerazione era insufficiente e c’erano mucchi di immondizia sui pavimenti bagnati.
I medici degli ospedali iniziarono a notare alcuni pazienti che avevano i sintomi di una polmonite virale che non reagiva alle cure consuete e ricostruirono che i pazienti lavoravano tutti nel mercato di Huanan. Il primo gennaio le autorità chiusero quindi il mercato dicendo che sarebbe stato ripulito per motivi ambientali e igienici legati al contagio della polmonite; quella stessa mattina operai vestiti con tute protettive lavarono le bancarelle e spruzzarono disinfettante. Fu il primo tentativo pubblico di contenere la malattia ma le autorità annunciarono che il virus era stato fermato alla fonte e che non c’erano prove che il contagio avvenisse da persona a persona ma solo da animali.
Nove giorni dopo un uomo che faceva abitualmente la spesa in quel mercato morì. Secondo la Commissione sanitaria di Wuhan fu la prima morte causata dalla malattia: la persona aveva 61 anni, faceva di cognome Zeng e aveva una malattia cronica al fegato e un cancro all’addome. Le autorità rivelarono che era morto solo due giorni dopo il decesso e non dissero che sua moglie aveva sviluppato gli stessi sintomi cinque giorni dopo di lui, pur non essendo mai stata al mercato.
Intanto, a 30 chilometri dal mercato, i ricercatori dell’Istituto di virologia di Wuhan studiavano i campioni prelevati dai pazienti ricoverati. Tra loro c’era Zheng-Li Shi, una delle scienziate che aveva identificato la provenienza del virus della SARS. La composizione genetica del nuovo virus faceva pensare che l’ospite iniziale fossero i pipistrelli come nel caso della SARS: in quel caso dai pipistrelli era passato ai musang, mammiferi simili agli zibetti che vengono che vengono allevati e mangiati legalmente. È probabile che il nuovo coronavirus abbia seguito un percorso simile, lungo il tragitto che lo portò a Wuhan o nel mercato stesso. Shi e collaboratori isolarono la sequenza genetica nella prima settimana di gennaio e il 7 gennaio coniarono il nuovo nome “2019-nCoV”; quattro giorni dopo ne condivisero la mappa genetica in un database pubblico per gli scienziati di tutto il mondo. Nel frattempo i medici degli ospedali di Wuhan avevano iniziato a diffondere tra i colleghi la notizia della nuova malattia, anche per proteggersi, visto che alcuni di loro erano stati contagiati.
Le autorità erano invece impegnate a rassicurare e minimizzare le notizie sul virus e dopo la chiusura del mercato erano rimaste in silenzio. Nonostante emergessero allarmi sempre più evidenti, questa posizione fu mantenuta per tutta la durata di due importanti Congressi dell’Assemblea popolare cinese, dal 6 al 17 gennaio.
Il 7 gennaio il sindaco di Wuhan, Zhou Xianwang, parlò davanti all’assemblea senza mai accennare alla malattia, non venne cancellato un grande banchetto all’aperto con più di 40mila famiglie organizzato per l’occasione e il governo distribuì più di 200 mila coupon di viaggio gratuiti per dare impulso al turismo. Durante i Congressi la Commissione sanitaria disse più volte che non c’erano nuovi casi, nessuna evidenza di trasmissione tra persone e nessuna infezione del personale sanitario.
Le cose non stavano così e tra le tante testimonianze il New York Times riporta anche la denuncia presentata alla Commissione sanitaria nazionale su un sito governativo da un medico di Wuhan rimasto anonimo: descrive la diffusione della malattia dal 12 gennaio e racconta che i funzionari governativi intimarono ai medici di non parlare di polmonite virale, accusandoli di esagerare.
Medici, malati e loro familiari finirono quindi per sottostimare la reale portata della malattia: molti malati vennero mandati a casa prima del tempo, infettando quelli che con cui vivevano e che spesso pensavano di avere solo un raffreddore molto forte. La stampa rifletteva la serenità del governo e inizialmente anche l’OMS condivideva lo stesso atteggiamento rassicurante.
Il 13 gennaio la Thailandia annunciò il primo caso di contagio fuori dalla Cina, attirando così anche l’attenzione del governo centrale. Pechino inviò a Wuhan Zhong Nanshan, il celebre pneumologo ed epidemiologo cinese che nel 2003 aveva scoperto il coronavirus della SARS e che fu in prima linea nel contenimento della malattia. Zhong arrivò in città il 18 gennaio, quando i medici della provincia di Hubei erano stati finalmente allertati sulla gravità della malattia, invitati a considerarla una priorità e allertati che si poteva trasmettere attraverso la saliva. Il 20 gennaio, più di un mese dopo la comparsa dei primi casi, Zhong spiegò in una conferenza stampa che non c’era dubbio che il virus trasmettesse tra le persone – e non solo da animali a persona – e che un paziente aveva infettato almeno 14 persone tra medici e personale sanitario. Il presidente Xi Jinping fece il suo primo intervento pubblico, una concisa serie di istruzioni su come comportarsi; a quel punto le persone morte erano tre.
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Le autorità di Wuhan iniziarono ad attivarsi per contenere il diffondersi del contagio. Vietarono i tour organizzati provenienti da fuori e gli abitanti iniziarono a girare con le mascherine. Due giorni dopo la città fu messa in quarantena: migliaia di persone si ammassarono agli aeroporti e alle stazioni ferroviarie per cercare di scappare prima che avesse inizio, nelle prime ore del 23 gennaio. Intanto gli ospedali erano pieni di gente che voleva sapere se era stata contagiata. Il sindaco Zhou Xianwang si assunse la responsabilità per aver taciuto le informazioni sul virus ma ricordò anche che la legge consente ai governi provinciali di denunciare un’epidemia solo dopo aver ricevuto l’approvazione del governo centrale.
A fine gennaio, i contagi – nel mondo – erano nel frattempo diventati più di 10mila e i morti più di 200.