Il voto ai sedicenni, e anche a tutti gli altri

In un mondo sempre più anziano, molti esperti e studiosi propongono di abbassare l'età del voto: e c'è anche chi sostiene che vada eliminata del tutto

di Davide Maria De Luca

(ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO)
(ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO)

Dopo lo sciopero per il clima di venerdì 27 settembre, quando migliaia di ragazzi delle scuole medie e superiori sono tornati a protestare in tutta Italia, anche nel nostro paese si è tornati a parlare della possibilità di allargare il diritto di voto ai maggiori di 16 anni. Dato che si tratta comunque di una scelta arbitraria, e mentre il paese invecchia i giovani mostrano tanto interesse per il futuro del nostro pianeta, sostiene qualcuno, perché non dare loro la possibilità di votare così che possano concretamente contribuire a deciderlo?

L’ex presidente del Consiglio Enrico Letta è stato il primo a riproporre l’idea, che Walter Veltroni aveva già lanciato nel 2007 quando divenne segretario del Partito Democratico. «È un modo per dire a quei giovani che abbiamo fotografato nelle piazze, lodando i loro slogan e il loro entusiasmo: vi prendiamo sul serio», ha detto Letta in un’intervista a Repubblica, e la sua proposta è stata immediatamente accolta con favore da quasi tutti i partiti e i leader politici.

Il segretario del PD Nicola Zingaretti ha detto che è oramai «arrivato il tempo», mentre il capo politico del Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio ha detto che «il voto ai sedicenni si farà» perché «abbiamo fiducia nelle nuove generazioni». Persino la Lega ha detto di essere a favore della proposta e il presidente del Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, ha ricordato che quattro anni fa era stato il primo firmatario di una proposta di legge costituzionale in questo senso.

Anche sui giornali i commenti favorevoli hanno superato quelli contrari, persino sui quotidiani generalmente conservatori come il Corriere della Sera e il Foglio, mentre proprio la prossima settimana il Senato voterà una legge, già approvata da una larghissima maggioranza alla Camera, che prevede di abbassare l’età di voto per il Senato da 25 a 18 anni, un segnale che mostra come esista un interesse reale della politica per allargare il diritto di voto e coinvolgere nel processo elettorale fasce di popolazione fino ad ora escluse.

L’Italia non sarebbe il primo paese a fare questa scelta. In Europa quattro paesi hanno già abbassato i limiti di età al voto: Austria, Grecia, Malta e Ungheria (dove i maggiori di sedici anni possono votare se sposati), mentre nel resto del mondo il diritto al voto è esteso ai sedicenni in Argentina, Brasile, Nicaragua, Cuba, Ecuador, mentre in Indonesia e Timor Est si vota dai 17 anni in sù (si può votare a 17 anni anche in Corea del Nord, anche se non serve a molto).

Per i più convinti sostenitori di queste riforme, la riduzione del limite d’età di voto è la naturale prosecuzione delle grandi battaglie politiche combattute nell’ultimo secolo per allargare l’elettorato, la più grande delle quali fu probabilmente quella per il suffragio femminile, vinta in quasi tutto il mondo cosiddetto sviluppato tra la fine dell’Ottocento e gli anni Cinquanta del secolo successivo (Nuova Zelanda e Australia furono i primi due paesi a dare il diritto di voto alle donne negli anni Novanta dell’Ottocento, mentre la Svizzera concesse il voto alle donne solo nel 1971, dopo che una prima proposta era stata respinta nel 1959 da una larghissima maggioranza formata – evidentemente – da soli maschi).

Nei decenni precedenti il diritto al voto era ancora più limitato: non solo le donne non potevano votare, ma anche tra i maschi avevano diritto di farlo soltanto quelli che pagavano una certa quantità di tasse oppure i proprietari terrieri, poiché si riteneva che chi non possedeva nulla non avesse interesse al benessere della società, e quindi non avesse diritto a esprimere un voto (persino negli Stati Uniti il diritto di voto rimase legato alla proprietà fino alla Guerra Civile).

Quando il “voto per censo”, cioè basato sulla ricchezza, fu sconfitto in quasi tutta Europa e nel continente americano, cominciò la lotta contro coloro che ritenevano che l’istruzione dovesse costituire il requisito necessario per poter votare. Fino a buona parte dell’ultimo secolo, infatti, moltissimi paesi non permettevano agli analfabeti di partecipare alle elezioni, oppure obbligavano i cittadini a superare un test per ottenere il diritto di voto.

La giustificazione che si adottava all’epoca era che gli analfabeti e le persone poco istruite non erano in grado di cogliere le sfumature della politica, e per questo non avevano diritto a dire la loro su come la società andasse organizzata. In realtà sappiamo oggi che questa limitazione serviva soprattutto a colpire i membri più deboli della società e i gruppi etnici oppressi, che con il loro voto avrebbero potuto ottenere un cambiamento dell’ordine sociale ed economico. I test di cultura e alfabetizzazione costituirono per decenni uno dei principali strumenti delle leggi cosiddette “Jim Crow” con cui nel sud degli Stati Uniti veniva legalmente impedito ai neri di votare.

Il primo a mettere per iscritto l’idea che giovani e politica dovessero essere tenuti separati fu probabilmente il filosofo greco Platone. Nella sua La Repubblica, Platone attacca la democrazia in cui «giovani pretendono gli stessi diritti, le stesse considerazioni dei vecchi». È un sistema che non può funzionare, secondo Platone, poiché finisce inevitabilmente sotto il controllo di questo gruppo numeroso, energetico e vitale, ma che è allo stesso tempo impulsivo, prono alla violenza e ostile al ragionamento, e che quindi finirà con il portare alla rovina lo Stato.

Prima della Seconda guerra mondiale era necessario avere 21 anni o più per votare in quasi tutto il mondo. Solo negli anni Settanta, anche in seguito alla contestazione giovanile del decennio precedente, molti paesi abbassarono a 18 anni il diritto di elettorato attivo e passivo (cioè quello di essere eletti, oltre che di votare). Nel Regno Unito accadde nel 1969, negli Stati Uniti nel 1971, in Canada e Germania Ovest nel 1972, in Australia e Francia nel 1974 e infine nel 1975 anche in Italia.

Spesso queste riforme furono accompagnate da dibattiti i cui toni dovrebbero risultarci familiari, in questi giorni in cui si torna a discutere di questi argomenti. I conservatori ripetevano le tesi di Platone sull’irresponsabilità dei giovani e sui disastri che sarebbero conseguiti nel dare loro la possibilità di votare (il timore inconfessato, almeno negli anni Settanta, era soprattutto che avrebbero votato in massa a sinistra: cosa che, almeno in parte, si verificò). I giovani e i loro sostenitori all’interno dei partiti progressisti rispondevano che quelle obiezioni si erano già sentite in passato, di volta in volta rivolte ai poveri, agli analfabeti e alle donne. e ricordavano che le terribili conseguenze pronosticate dai loro oppositori non si erano mai verificate, una volta allargato il bacino degli elettori.

In un recente articolo pubblicato sul sito Vox, la giornalista Kelsey Piper ripercorre questo vecchio dibattito per argomentare ancora una volta che è arrivato il momento di fare un altro passo su questa strada. Piper ricorda che è falsa l’idea che gli elettori debbano essere informati o che debbano avere esperienza per potere votare: ai maggiori di 18 anni, infatti, non si chiede di essere informati o preparati, e nessuno pensa di ritirare il diritto di voto ai malati di Alzheimer o agli anziani affetti da demenza senile. Non è chiaro perché allora questi criteri dovrebbero valere per i più giovani (se decidessimo che “avere un’idea di come stanno le cose” fosse un requisito necessario per votare, probabilmente torneremmo ad avere percentuali ottocentesche di aventi diritto al voto: e sarebbero esclusi anche moltissimi maggiorenni).

Ci sono poi benefici concreti nel dare il diritto di voto ai più giovani, prosegue Piper. Per esempio può aiutare a renderli più interessati e partecipi alla vita politica del paese. Non è solo intuitivamente così, ma abbiamo anche delle prove. Quando nel 2007 l’Austria divenne il primo paese europeo a dare il voto ai 16enni, si scoprì che i nuovi giovanissimi elettori erano informati allo stesso livello dei più anziani e più inclini ad andare a votare rispetto alla fascia 18-21 anni (votare è un’abitudine: cercare di sviluppare un’abitudine nei caotici anni in cui si esce dalle scuole superiori per iniziare a lavorare o per andare all’università è particolarmente complicato, ricorda Piper).

I più giovani hanno anche molti più interessi in gioco dei più anziani, quando arriva il momento di decidere il futuro, se non altro perché hanno molto più tempo da trascorrere nelle società le cui forme e caratteristiche vengono decise al momento del voto. E da maggiori interessi in gioco, prima o poi, derivano di solito un maggiore interesse e una maggiore assunzione di responsabilità. Il fatto che votare si colleghi inevitabilmente con il poter dire la propria sul futuro ci ricorda anche che a forza di parlare di quali sarebbero gli “effetti” del far votare persone “irresponsabili” o “inadeguate”, ci siamo dimenticati che la democrazia non è un sistema in cui ci si aspetta che il corpo elettorale prenda le decisioni “giuste” per la società.

La stessa idea che esistano decisioni “giuste” in assoluto, che aspettano solo di essere assunte, è propria della visione del mondo con cui di solito vengono giustificati regimi autoritari e pulsioni repressive: quella secondo cui ci sono singoli individui o gruppi di persone che per le più disparate ragioni (virtù personali, aderenza a un’ideologia o a una fede religiosa) sono in grado di prendere le decisioni migliori per tutti quanti. La moderna democrazia è invece basata in gran parte sull’idea opposta, ossia che non esistano decisioni “giuste” per tutti, ma che la politica sia costituita dalla complicata composizione di interessi differenti, e che il modo migliore di conciliarli sia tramite un voto democratico il più esteso e rappresentativo possibile. Insomma, non sono i “migliori”, o anche solo i “degni”, quelli che hanno diritto di esprimersi, ma tutti quelli che nella società hanno un interesse, e cioè chiunque ne faccia parte.

Qualche studioso va ancora oltre. Se le cose stanno davvero così, perché fermarsi al voto ai sedicenni? Dopotutto la dichiarazione dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite prescrive soltanto che le elezioni si svolgano «a suffragio universale ed eguale». I limiti d’età al diritto di voto appaiono una plateale eccezione non prevista da quell’aggettivo “universale” messo accanto a suffragio (in teoria non meno ironico di quando “suffragio universale” veniva usato per indicare quello che in realtà era il suffragio esclusivamente maschile). In una lezione molto discussa, il capo del dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Cambridge, David Runciman, ha sostenuto che abbassare i limiti di età a 16 anni non è più sufficiente nel mondo sempre più anziano nel quale viviamo. Secondo Runciman l’età di voto andrebbe estesa ai maggiori di sei anni. «Non accadrà nemmeno in un milione di anni», concede, «ma è un modo di cogliere quanto siano diventate strutturalmente sbilanciate le nostre moderne democrazie».

La proposta provocatoria di dare il diritto di voto ai maggiori di sei anni è la conclusione di una lezione in cui Runciman affronta le conseguenze di un fenomeno senza precedenti nella storia della democrazia: l’invecchiamento della popolazione. Platone, ricorda Runciman, era contrario alla democrazia perché ai suoi tempi i giovani erano per definizione più numerosi degli anziani: a quel tempo non poteva essere altrimenti. In un sistema democratico, quindi, avrebbero finito con il dominare lo scenario politico, imponendo alla società la loro impulsività e mancanza di esperienza.

Oggi, dopo secoli di progressi nella medicina e il crollo verticale nel numero di nuovi nati, le cose sono cambiate: «i giovani sono sistematicamente messi in inferiorità numerica dagli anziani», sostiene Runciman. E questo non accade solo perché i giovani tendenzialmente votano meno frequentemente degli anziani, ma anche perché se anche andassero a votare tutti insieme sarebbero comunque battuti (in Italia, per esempio, metà della popolazione ha più di 45 anni). Il loro svantaggio numerico è reso definitivo e insormontabile dal fatto che la coda della loro classe d’età, coloro che hanno meno di 18 anni, è esclusa dal diritto di voto, mentre «non si perde il diritto di voto arrivati a 75 anni. Puoi continuare a votare fino al giorno della tua morte e senza dover affrontare alcun test».

Il risultato è che i giovani sono tre volte discriminati nella nostra epoca, ricorda Runciman: se hai 20 anni non c’è nessuno della tua età a rappresentarti in Parlamento (dove sono di solito tutti molto più anziani), non fai che perdere elezioni e in più, in quanto giovane, hai sulle spalle il peso del futuro del mondo. Per Runciman è ovvio quale sia la risposta a questa situazione: bisogna far votare di più i giovani, ma anche far votare più giovani, rimuovendo tutte le barriere legali che oggi impediscono loro di votare (in Italia, per esempio, non si può votare facilmente a distanza o per posta, cosa che esclude moltissimi studenti fuorisede impossibilitati a tornare nella loro città di residenza). «Qual è la cosa peggiore che può accadere?», si domanda. «Almeno sarà interessante e renderà le elezioni molto più divertenti».