Otto canzoni dei Talk Talk

Dalle prime che fecero il botto a quelle più creative, oggi che è morto Mark Hollis, leader e ispiratore della band

Lunedì è morto Mark Hollis, musicista britannico ammirato, e fondatore e leader della band dei Talk Talk, che ebbe un grande successo internazionale negli anni Ottanta con un disco in particolare, e poi si fece ricordare per essersi indirizzata verso progetti più creativi e sperimentali. Nel suo libro Playlist, la musica è cambiata Luca Sofri, peraltro direttore del Post, aveva scelto queste canzoni dei Talk Talk.

Talk Talk
(1981-1991, Londra, Inghilterra)
Ricordati quasi solo per una coppia di singoli che spopolarono nella prima metà degli anni Ottanta, i Talk Talk hanno avuto una storia assai più originale di molti loro colleghi sbucati dalla new wave inglese. Erano tre, più uno che si faceva vedere meno, ed ebbero il coraggio di fregarsene di ripetere il primo successo, gettando nella disperazione i discografici e spingendosi sempre di più verso creatività musicali nuove e sregolate, e molto affascinanti. Ora non ci sono più, e ciascuno di loro fa serenamente le sue cose.

Talk Talk
 (The party’s over, 1982)
Prima che spaccassero il mondo con il disco successivo, i Talk Talk si erano già fatti conoscere con la canzone da cui prese il nome la band, un pezzone bello tirato con suoni anni Ottanta ma una personalità tutta sua. La voce di Hollis, uno scatenato thumping di batteria elettronica e tastiere, l’assolo di pianoforte: un grande riempipista.

It’s my life 
(It’s my life, 1984)
Furono subito memorabili l’attacco di gabbiani sintetici e il video di animali veri, e lui col berretto di lana da peschereccio. “It’s my life” andò forte soprattutto in Italia, più che nel resto d’Europa. 
Dei molti remix, non perdetevi quello che si chiude portando in primo piano il giro di basso.

Such a shame 
(It’s my life, 1984)
It’s my life, il disco, fu il primo passo dei Talk Talk verso l’inventiva anarchica della loro seconda fase, ma ancora ricco di elettropop e suoni new wave.
“Such a shame” ha un attacco inconfondibile e inquietante – qui un barrito, al posto dei gabbiani – e poi esplode nel poderoso refrain: anche questa impazzò soprattutto in Italia, più ancora del primo singolo.

Renée (It’s my life, 1984)
Una delle due canzoni dedicate a una Renée (renéi, nella pronuncia anglosassone) che si ricordino: l’altra è “Walk away Renée” dei Four Tops (in origine dei Left Banke). Un lentone sofferto in cui la voce nasale di Mark Hollis è più appassionata che mai.

I don’t believe in you
 (The colour of spring, 1986)
Il terzo disco non conobbe la fama internazionale ottenuta dai due singoli del precedente, ma era molto più completo, sempre in equilibrio tra il modello canzone pop e la voglia di inventare: i tempi dei suoni sintetici sono passati, e qui si usano strumenti veri. “I don’t believe in you” ha soprattutto un ritmo dolcissimo e robusto assieme, e una nota nuova nell’uso della chitarra (di David Rhodes).

Living in another world
 (The colour of spring, 1986)
Ancora molta chitarra, e un ritmo più tosto. Ci sono sempre suoni selvatici, come in It’s my life, ma c’è anche un’armonica imbizzarrita, e un inatteso Steve Winwood che impazza all’organo Hammond.

Time it’s time 
(The colour of spring, 1986)
L’ultimo pezzo di The colour of spring è come la cerimonia di chiusura delle olimpiadi, quando entrano in scena i rappresentanti della città che ospiterà le successive. Indica dove ci vedremo la prossima volta. Otto minuti continui e insistenti, una specie di pioggia che parla del tempo che passa e che verrà, con un coro quasi gospel, e – tombola – un flauto a chiudere.

I believe in you 
(Spirit of Eden, 1988)
Sprit of Eden è un capolavoro, una specie di disco dei vecchi Pink Floyd, un impazzimento dolcissimo di suoni, pezzetti, eccitazioni: un annuncio del genere chiamato postrock che doveva ancora venire. “I believe in you” (o hanno cambiato idea rispetto al disco precedente, o lei è un’altra: o non è una lei) contiene gli elementi melodici più efficaci del disco, e fu di malavoglia scelta dall’etichetta come singolo: una roba celestiale e psichedelica in cui Mark Hollis balbetta a lungo solo la parola “spirit” e qualche altro mormorio. Dopo, i Talk Talk pubblicheranno ancora un disco dello stesso andazzo, Laughing stock, e poi si scioglieranno. Mark Hollis procederà ancora oltre, da solo. Ma niente che si possa più esattamente definire “canzone”.