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  • Martedì 20 novembre 2018

Cosa pensa il Labour di Brexit?

Jeremy Corbyn continua ad avere una posizione ambigua: deve gestire i militanti favorevoli a un nuovo referendum e un pezzo di elettori che invece non ne vogliono sapere

(Jack Taylor/Getty Images)
(Jack Taylor/Getty Images)

In un’intervista di domenica scorsa, il segretario del Partito Laburista britannico Jeremy Corbyn ha avuto qualche difficoltà a chiarire la posizione del suo partito su Brexit. Incalzato più volte dalla giornalista Sophy Ridge su come avrebbe personalmente votato nel caso di un nuovo referendum, Corbyn ha risposto: «Non lo so, non so quali opzioni ci sarebbero sulla scheda».

L’incertezza di Corbyn è stata subito attaccata dai suoi avversari interni al partito e dalla stampa scandalistica britannica, tendenzialmente conservatrice e particolarmente ostile al leader laburista. Ma per Corbyn è effettivamente difficile difendersi dall’accusa di ambiguità: la posizione del suo partito è complessa e condizionata da numerosi “se” e “ma”, e non sembra diventerà più chiara, almeno a breve.

Da quello che si può dedurre da documenti e dichiarazioni ufficiali, il partito è disposto ad accettare una Brexit “morbida” e in cui venga prestata particolare attenzione alle questioni sociali. Se questo risultato non venisse raggiunto – e Corbyn ha già detto che l’attuale accordo non soddisfa le condizioni richieste – il partito chiederebbe nuove elezioni. Se fosse impossibile ottenerle, chiederebbe un secondo referendum che, eventualmente, potrebbe anche contenere tra le sue opzioni la scelta di rimanere nell’Unione Europea. In altre parole, la posizione del Partito Laburista su Brexit è ancora piena di condizionali.

Questa ambiguità ha delle ragioni che diversi dirigenti del partito hanno ammesso candidamente. I più vicini a Corbyn, così come i leader dei principali sindacati, temono che appoggiare esplicitamente un secondo referendum facendo campagna per il “Remain” potrebbe danneggiare il partito in tutti quei seggi dove nel giugno 2016 vinse il “Leave”, quando una fetta consistente degli elettori laburisti – circa uno su tre – votò per uscire dall’Unione Europea. Secondo Steve Turner, il vicesegretario generale del sindacato Unite, il secondo più grande del Regno Unito, un secondo referendum come quello del 2016 finirebbe col riaprire vecchie ferite.

Il problema per Corbyn e gli altri leader del Labour è che su questo tema sembra esistere una profonda frattura tra gli iscritti del partito e i suoi elettori. I primi sono largamente favorevoli a un secondo referendum – l’86 per cento secondo un sondaggio di YouGov – mentre una fetta consistente dei secondi ha votato per il “Leave” e non gradisce l’idea di doversi esprimere di nuovo sullo stesso tema.

Questo conflitto è ulteriormente complicato dalle divisioni interne alla leadership del partito, venute fuori già nei giorni immediatamente successivi alla vittoria dei “Leave” nel giugno 2016, quando una rivolta interna di dirigenti e parlamentari costrinse Corbyn ad affrontare un nuovo congresso. L’accusa principale che gli muovevano gli avversari era non aver sostenuto il “Remain” con convinzione, e avere posizioni euroscettiche che avevano finito con il danneggiare la campagna del partito.

Corbyn si difese ammettendo di essere un critico dell’Europa (nella sua campagna aveva coinvolto un altro europeista scettico come l’ex ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis), ma rivendicando il suo sostegno all’opzione “Remain” con 60 comizi negli ultimi 60 giorni di campagna elettorale e più di 3 mila chilometri percorsi che lo hanno portato a essere il terzo politico pro-“Remain” più presente sui media britannici. Alla fine del settembre 2016, tre mesi dopo il referendum, Corbyn venne confermato alla guida del Labour, ma non riuscì a liberarsi delle accuse di essere nel migliore dei casi soltanto un tiepido sostenitore della permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea.

Nei mesi successivi le fazioni che si erano delineate all’interno del partito si sono consolidate. Da un lato la “destra” del partito, formata soprattutto dai cosiddetti blairiani, sostenitori e nostalgici dell’ex leader laburista Tony Blair, favorevoli a contrastare Brexit in ogni modo, anche tramite l’utilizzo di un secondo referendum. Dall’altro la “sinistra” di Corbyn che, a partire dall’inizio del 2017, ha adottato come sua posizione l’accettazione di una “Brexit morbida” che tenesse conto di sei punti fondamentali, validi ancora oggi:

• Avere un sistema di gestione dell’immigrazione equilibrato, sia per le aziende britanniche che per le comunità
• Mantenere una forte relazione con l’Unione Europea
• Proteggere la sicurezza nazionale e la capacità di punire crimini oltre confine
• Includere nelle trattative tutte le regioni del Regno Unito
• Mantenere i diritti dei lavoratori e le protezioni per i dipendenti
• Mantenere accesso al mercato unico

Il momento in cui le due fazioni sono arrivate di nuovo allo scontro è stato la conferenza di partito dello scorso settembre a Liverpool. Le crescenti difficoltà manifestate dal Partito Conservatore nella gestione dei negoziati avevano portato sempre più persone a chiedere un secondo referendum su Brexit, per provare a rovesciare il risultato del precedente. Numerosi leader del centro e della destra del partito hanno sostenuto la necessità di appoggiare un secondo referendum. In uno dei momenti culminanti della conferenza, il ministro ombra per la Brexit Keir Starmer ha detto dal palco che «nessuno vuole escludere la possibilità di rimanere» nell’Unione Europea, una frase accolta con una standing ovation dalle centinaia di delegati presenti.

Alla fine, l’assemblea del partito ha approvato una mozione in cui era scritto:

I laburisti devono tenere tutte le opzioni sul tavolo, incluso fare campagna per un nuovo voto. Se il governo ha fiducia nella sua abilità di negoziare un accordo che beneficerà i lavoratori, la nostra economia e le nostre comunità, non avrà paura di sottoporre quell’accordo a un nuovo voto.

Corbyn è rimasto freddo sulla questione, sia durante la conferenza che nelle settimane successive. La formulazione della mozione permette a Corbyn e alla sinistra del partito di rimanere ambigui e non esprimersi nettamente. La loro speranza è continuare a tenere il piede in due scarpe per i prossimi mesi, far fallire la proposta di accordo del governo May, portare il paese a elezioni anticipate e quindi vincerle senza prendere una posizione definitiva su Brexit, rimandando così il momento della decisione a dopo la vittoria. Resta da vedere se il governo e i suoi avversari interni gli permetteranno di portare avanti questa strategia.