Che cos’è l'”alienazione parentale”?

Se n'è parlato – impropriamente – dopo il caso di Luigi Capasso, il carabiniere che ha ucciso le figlie e ha sparato alla moglie

(ARMEND NIMANI/AFP/Getty Images)
(ARMEND NIMANI/AFP/Getty Images)

Il caso di Luigi Capasso, un carabiniere di 44 anni che ha ucciso le sue figlie poco dopo aver sparato tre colpi di pistola alla donna da cui si stava separando, Antonietta Gargiulo, è accaduto nonostante ci fossero stati molti segnali di allarme sulla pericolosità e sulla gravità della situazione. Antonietta Gargiulo aveva lasciato Capasso, aveva paura di lui, aveva cambiato la serratura della porta, aveva presentato un esposto  dicendo di sentirsi in pericolo e aveva avvisato i superiori del marito. Gargiulo era anche stata convocata dal commissariato di Velletri perché Capasso aveva presentato un esposto contro di lei e aveva raccontato la sua versione dei fatti, e cioè che la moglie gli impediva di vedere le figlie.

Diversi giornali, nel raccontare questa storia, si sono soffermati sul fatto che Capasso fosse «legatissimo alle figlie» (che aveva appena ucciso e a cui aveva tentato di togliere la madre), ma ci sono diverse testimonianze di come le due bambine, che avevano assistito alle aggressioni del padre nei confronti della loro madre, ne avessero paura. Capasso, nell’esposto in cui accusava la moglie di tenerlo lontano dalle figlie, aveva fatto implicitamente appello alla cosiddetta “alienazione parentale”, che continua a trovare applicazione nei tribunali italiani durante le cause di separazione e di affidamento dei figli.

La sindrome da alienazione genitoriale o sindrome da alienazione parentale (PAS, dalla formula in inglese) è un concetto che venne introdotto per la prima volta negli anni Ottanta dallo psichiatra forense statunitense Richard Gardner, e descritto come una dinamica psicologica disfunzionale che si attiva nei figli minori coinvolti nelle separazioni conflittuali dei genitori. Secondo Gardner questa sindrome sarebbe il risultato di una presunta “programmazione” dei figli da parte di uno dei due genitori (definito “genitore alienante”) che porta i figli a dimostrare astio e rifiuto verso l’altro genitore (definito “genitore alienato”). In poche parole sarebbe un incitamento ad allontanarsi da uno dei due genitori, portato avanti intenzionalmente dall’altro genitore attraverso l’uso di espressioni denigratorie, false accuse e costruzioni di «realtà virtuali familiari». Per Gardner, affinché si possa parlare di PAS è necessario che questi sentimenti di astio e di rifiuto non nascano da dati reali e oggettivi che riguardano il genitore alienato.

Fin da subito la teoria di Gardner fu molto contestata nel mondo scientifico-accademico poiché priva di solide dimostrazioni. Per lo stesso motivo non è nominata nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM 5), che è la principale fonte per i disturbi psichiatrici ufficialmente riconosciuta in tutto il mondo, e non è considerata nemmeno dall’APA (American Psychological Association).

Nonostante la mancanza di prove scientifiche a supporto, l’alienazione genitoriale – intesa non come sindrome di cui soffrono i minori (PAS) ma come condotta attivata all’interno di una famiglia che si sta sfaldando e che viene ritenuta esistente nel momento in cui i bambini non vogliono più vedere uno dei due genitori (AP) – viene presa in considerazione molto spesso nelle aule dei tribunali, anche in Italia: diventa cioè un principio in ambito giudiziario a cui si fa spesso ricorso nei casi si separazione conflittuale.

Prima di proseguire è necessario conoscere qualche dato: nel rapporto dell’ISTAT del 2016 si dice che per quanto riguarda il tipo di affidamento, negli ultimi dieci anni si è verificata una netta inversione di tendenza: «Fino al 2005, è stato l’affidamento esclusivo dei figli minori alla madre la tipologia ampiamente prevalente. Nel 2005, i figli minori sono stati affidati alla madre nell’80,7 per cento delle separazioni e nell’82,7 per cento dei divorzi». A partire dal 2006, in concomitanza con l’introduzione della legge numero 54 che ha stabilito come il principio generale debba essere l’affidamento condiviso, la quota di affidamenti concessi alla madre si è ridotta. Il sorpasso vero e proprio è avvenuto nel 2007 (72,1 per cento di separazioni con figli in affido condiviso contro il 25,6 per cento di quelle con figli affidati esclusivamente alla madre), per poi consolidarsi ulteriormente. Nel 2010 c’è stata una riduzione della percentuale dei figli affidati esclusivamente alla madre, pari al 9 per cento, tendenza che si è consolidata negli anni successivi. Nel 2015, che sono anche gli ultimi dati a disposizione, le separazioni con figli in affido condiviso sono circa l’89 per cento contro l’8,9 per cento di quelle con figli affidati esclusivamente alla madre. Per quanto riguarda l’invocazione parentale, non ci sono dati a cui fare riferimento, ma come ha confermato Avvenire in un articolo del 2017 e come sostengono diversi avvocati, «nove volte su dieci» sono i padri che si appellano a una presunta alienazione genitoriale.

Il principio dell’alienazione parentale (e in Italia ci sono diverse associazioni che lo difendono) viene invocato ogni volta che non c’è condivisione sulle scelte da fare per i bambini. Ma diventa un problema soprattutto in alcune circostanze. L’Associazione Nazionale D.i.Re “Donne in Rete contro la violenza”, che riunisce decine di Centri Antiviolenza attivi in Italia, ha criticato spesso questo principio: nelle situazioni di maltrattamento, infatti, l’alienazione genitoriale viene utilizzata in maniera strumentale «dai padri maltrattanti nelle aule giudiziarie per screditare le donne che in sede di separazione richiedono protezione a favore dei figli che si rifiutano di incontrare il padre perché traumatizzati dai suoi comportamenti violenti». In sostanza si finisce spesso per non riconoscere il trauma dei bambini e delle bambine e per colpevolizzare invece la madre (già vittima di violenza) ritenendola responsabile di comportamenti che vengono definiti come atti di alienazione parentale. Un richiamo all’Italia in questo senso era stato presentato nel 2011 dal Comitato CEDAW delle Nazioni Unite.

L’alienazione parentale rischia dunque, in alcuni casi, di far riferimento a un principio di genitorialità disgiunto da tutto il resto, o meglio: al diritto alla genitorialità a prescindere dal contesto, anche quando il contesto è violento. Tende a confondere la violenza con il conflitto interno a una coppia che si sta separando, afferma che uno dei due genitori è responsabile della qualità della relazione tra i figli e il genitore che ha agito con violenza, colpevolizza le vittime e, di fatto, non protegge i bambini che assistono ai maltrattamenti.

A livello internazionale la questione non è affatto controversa. La Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne, che è stata ratificata dall’Italia e che è in vigore dal 1 agosto 2014, vieta sia l’affido condiviso sia la mediazione nei casi di violenza domestica e fissa una serie di linee guida che sarebbero utili nel valutare in generale l’utilità e le funzioni del principio dell’alienazione parentale anche nelle situazioni più sfumate e meno estreme. L’articolo 31 dice:

«Le Parti adottano misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che, al momento di determinare i diritti di custodia e di visita dei figli, siano presi in considerazione gli episodi di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione.

Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che l’esercizio dei diritti di visita o di custodia dei figli non comprometta i diritti e la sicurezza della vittima o dei bambini».

L’articolo 48:

«Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo destinate a vietare i metodi alternativi di risoluzione dei conflitti, tra cui la mediazione e la conciliazione, per tutte le forme di violenza che rientrano nel campo di applicazione della presente Convenzione».

L’articolo 45 della Convenzione, infine, afferma anche che nel caso di reati di violenza commessi contro una donna sia prevista «la privazione della patria podestà, se l’interesse superiore del bambino, che può comprendere la sicurezza della vittima, non può essere garantito in nessun altro modo».

Manuela Ulivi, avvocata e presidente della “Casa di Accoglienza donne maltrattate” di Milano, ha spiegato al Post che in Italia manca il sostanziale recepimento della Convenzione e che «si continua a non applicare una normativa di carattere internazionale facendo prevalere in ogni caso la legge ordinaria». La legge ordinaria, come confermano i dati ISTAT, segue il principio della bi-genitorialità con la conseguenza che nei tribunali italiani spesso si concede l’affido condiviso anche in presenza di padri maltrattanti. «Se un padre violento zigzaga con la famiglia in macchina in montagna dicendo che ucciderà tutti [è uno dei casi di cui si è occupata Ulivi in tribunale, ndr], la conclusione dei servizi sociali non può essere che non è pericoloso. La sensazione è che non ci sia mai una prova sufficiente a dimostrare la pericolosità di un padre perché il padre non si tocca». Nei casi di separazione conflittuale, prosegue Manuela Ulivi, c’è tutta una filiera fatta dal servizio sociale, dalla consulenza tecnica d’ufficio (CTU) e dal tribunale che «fa valere l’autorità paterna o un affido condiviso a tutti i costi, a scapito della protezione del minore e della donna abusata».

Il consulente tecnico di ufficio (CTU) – che nei casi di affidamento particolarmente complicati viene nominato dal giudice – nella sua indagine deve prendere in considerazione diversi fattori: se l’ambiente in cui dovrà stare il bambino è adatto, se c’è sufficiente cura psicologica del figlio, sufficiente protezione e stimolazione intellettuale. Sono comunque indagini specifiche all’interno di quel nucleo familiare al momento della separazione. Nonostante la Convenzione di Istanbul, spiega però Ulivi, «i tribunali civili non si sono attrezzati per andare ad accertare in modo più o meno immediato il fatto che ci sia stata violenza domestica. E dunque si continua a fare quello che si è sempre fatto: nominare dei consulenti per decidere l’idoneità genitoriale di entrambi i genitori in base a un approccio sistemico che valuta la famiglia nel suo insieme. Ma quella famiglia non c’è più e quindi non c’è niente di sistemico da valutare, così come non è possibile conservare la relazione in qualsiasi caso di entrambi i genitori con i figli. Partendo dal presupposto di un conflitto (e dunque di un rapporto alla pari che però non esiste più quando c’è violenza maschile contro la donna) non si arriva quasi mai a dire che un padre violento non deve vedere i propri figli. Alcuni padri hanno dunque buon gioco nel mettere in scacco le donne strumentalizzando i loro figli: per arrivare all’obiettivo finale che è colpire la donna, ancora una volta. L’alienazione genitoriale è il grimaldello che consente loro di farlo».

Nadia Somma, del centro antiviolenza Demetra di Lugo, ha spiegato a sua volta che «qui in Italia ci sono uomini con condanne per maltrattamenti in famiglia che grazie a una consulenza tecnica d’ufficio, in cui vengono descritti nei tribunali come incapaci di reagire a una separazione o addirittura vittime di false accuse da parte di ex mogli ostative, riescono a ottenere dal giudice l’affido condiviso, che per una donna che cerca di sottrarre se stessa e i figli dalla violenza, è come essere messa nella tana del lupo».

Ci sono diversi casi che testimoniano questa situazione e che sono stati raccontati sui giornali: Federico Barakat era un bambino di 8 anni a cui i servizi sociali avevano imposto gli incontri con il padre, nonostante il bambino stesso avesse più volte espresso il desiderio di non vederlo. La madre, Antonella Penati, aveva segnalato che l’uomo era violento e non era stata creduta né dai giudici né dagli assistenti sociali, che l’avevano invece descritta come una donna “esagerata”. Nel febbraio del 2009 Federico venne ucciso dal padre durante quello che avrebbe dovuto essere un incontro protetto nei locali dell’Asl del comune di San Donato Milanese. Erika Patti è una donna che venne definita “alienante” perché aveva paura per i suoi due figli di 8 e 12 anni, che il padre, dopo la separazione dalla donna e più volte denunciato per stalking, aveva ucciso e bruciato poiché aveva ottenuto il permesso del tribunale di tenerli con sé.

Per Manuela Ulivi l’affido condiviso ha ragione di esistere in generale, ma dove viene segnalata una violenza queste ragioni devono venir meno o devono comunque essere messe in discussione e indagate adeguatamente. Il nostro codice civile all’articolo 337 si occupa dell’affidamento a un solo genitore e dell’opposizione all’affidamento condiviso, ma dice che il provvedimento può essere motivato dal generico interesse del minore senza dare ulteriori specifiche su quale sia questo effettivo “interesse”. La situazione paradossale in cui ci si potrebbe trovare è dunque quella di un uomo violento con la ex moglie che può essere considerato comunque un padre con pieni diritti, se sul bambino non ha mai esercitato una violenza “diretta”. Senza tenere in considerazione il cosiddetto maltrattamento assistito, cioè la violenza che la Convenzione di Istanbul definisce come l’assistere alla violenza esercitata dal padre sulla madre. Il bambino che ha subito un maltrattamento assistito e che ha paura del maltrattante resta inascoltato e la sua paura attribuita alla madre malevola che lo ha alienato.

Elvira Reale, psicologa esperta di violenza di genere, ha spiegato qui come il combinato del principio della bi-genitorialità a tutti i costi e il ricorso spesso implicito all’alienazione genitoriale porti da una parte a considerare inattendibile il bambino, e dall’altra a considerare quasi automaticamente le accuse contro il genitore violento come il risultato di un processo di alienazione messo in atto dall’altro genitore: «In molte CTU l’impostazione è che – sia che nominino la PAS in via esplicita sia che non la nominino – si parte sempre dal considerare la violenza contro le donne come un conflitto, e le separazioni come conseguenti». La violenza subita dalla donna passa insomma in secondo piano, anche nel caso sia il bambino stesso ad averla vissuta. E ancora: «Se la donna è resistente alla relazione con un partner violento e teme anche per il figlio, sarà considerata genitorialmente inadeguata perché il genitore adeguato è quello che favorisce la relazione con l’altro, qualsiasi cosa sia successa prima».

Qualche settimana fa c’è stata una decisione di segno diverso sull’alienazione genitoriale: il 23 febbraio il tribunale di Lucca ha sospeso un provvedimento di allontanamento di un minore dalla madre che aveva subìto violenza dall’ex marito e che era stata giudicata adeguata ma alienante nella relazione tra il padre e il figlio. Manuela Ulivi (che in tribunale a Lucca rappresentava la madre del minore) ha spiegato che nell’ordinanza precedente «pur avendo una denuncia penale per aver messo le mani al collo della signora per strangolarla davanti al piccolo, lui sembrava non avere alcuna responsabilità, e anzi per il tribunale era lei che alienava il minore impedendogli di vedere il padre. Il bambino era stato dunque allontanato dalla madre e inserito in una casa famiglia». Con l’ordinanza di sospensione dell’allontanamento, il tribunale ha comunque imposto che il bambino debba incontrare il padre alcuni fine settimana e non ha smesso di considerare la madre come alienante. La prossima udienza è stata fissata l’11 maggio. La rete D.i.Re ha comunque accolto positivamente la decisione del tribunale di Lucca e ha aggiunto che «continuerà a denunciare ogni tentativo di utilizzare la PAS contro le donne che denunciano uomini maltrattanti».