Quanto funzionano i farmaci antidepressivi

Molto, secondo un grande studio della rivista Lancet e non era così scontato: negli ultimi decenni si è diffusa l’idea che non siano tanto migliori dei placebo

Confezioni di farmaci antidepressivi venduti negli Stati Uniti (Joe Raedle/Getty Images)
Confezioni di farmaci antidepressivi venduti negli Stati Uniti (Joe Raedle/Getty Images)

L’autorevole rivista scientifica britannica Lancet ha pubblicato un articolo che – mettendo a confronto i dati di 522 diversi studi – giunge alla conclusione che i 21 farmaci antidepressivi più diffusi sono più efficaci dei placebo per curare la depressione. Non era una conclusione scontata, visto che l’efficacia degli antidepressivi è al centro di un dibattito nella comunità scientifica. Negli ultimi decenni si è diffusa l’idea che nei test clinici su questi farmaci il numero di pazienti che notano un miglioramento dopo aver preso un placebo (cioè una pillola che non contiene nessun principio attivo, anche se chi lo prende non lo sa) sia aumentato. Il problema è che di grossi studi come questi sul tema non ne erano stati mai fatti: e per questa ragione si è diffusa l’idea che le aziende farmaceutiche modificherebbero i risultati degli studi nel modo che conviene loro di più e si è creato un certo complottismo intorno agli psicofarmaci.

Lo studio pubblicato su Lancet è stato fatto nel corso di sei anni prendendo in considerazione non solo i dati di tutti gli studi sui principali antidepressivi pubblicati nel mondo, ma anche una serie di dati mai pubblicati forniti ai ricercatori dalle aziende farmaceutiche. Tutti insieme i dati raccolti riguardano un campione di 120mila persone con una diagnosi di depressione. Ha lavorato allo studio una squadra di 18 esperti internazionali guidati da Andrea Cipriani, psichiatra italiano che insegna all’Università di Oxford. La maggior parte dei farmaci presi in considerazione sono inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI): vengono usati contro la depressione perché aumentano i livelli corporei di serotonina, una sostanza chimica che all’interno del cervello è coinvolta nella regolazione dell’umore, del sonno e dell’appetito, tra le altre cose.

Oltre a dimostrare che gli antidepressivi funzionano meglio dei placebo, lo studio ha confrontato l’efficacia dei diversi farmaci tra loro e i loro effetti collaterali. Secondo la scala dell’efficacia il più famoso degli antidepressivi, cioè il Prozac o fluoxetina secondo il nome generico, è al 16esimo posto, ma è uno di quelli più tollerati dai partecipanti agli studi: è uno dei farmaci per cui sono riportati meno effetti collaterali e per cui c’è un basso tasso di abbandono dei test prima della loro fine. Il farmaco che secondo lo studio di Lancet è il più efficace è l’amitriptilina, che in Italia si trova come Adepril, Laroxyl e Triptizol; per quanto riguarda la tolleranza è sesta.

I tre farmaci che mettendo insieme efficacia e tolleranza risultano migliori dallo studio sono l’agomelatina (commercializzata in Italia come Valdoxan e Thymanax), l’escitalopram (Cipralex, Entact) e la vortioxetina (Brintellix). I tre che risultano peggiori sono la fluvoxamina (Maveral, Fevarin, Dumirox), la reboxetina (Davedax, Edronax) e il trazodone (Trittico). Sagar Parikh dell’Università del Michigan e Sidney Kennedy dell’Università di Toronto, due medici che non hanno partecipato alla realizzazione dello studio, hanno commentato lo studio dicendo che i medici possono considerare come «prima scelta» per le prescrizioni i primi tre farmaci, anche se nei casi di depressione più grave può essere consigliabile prescrivere alcuni dei farmaci più efficaci, come l’agomelatina e la venlafaxina.

Detto questo, lo studio non indica che certi farmaci non andrebbero mai prescritti: è possibile che anche quelli che sono risultati meno efficaci negli studi fatti finora siano i più adatti per alcune persone, come ha sottolineato lo stesso Cipriani.

Circa l’80 per cento delle persone a cui i farmaci antidepressivi vengono prescritti smette di prenderli dopo un mese, tendenzialmente troppo presto perché abbiano un vero effetto. Tuttavia gli antidepressivi hanno un tasso di successo simile a quello delle terapie psicologiche cognitivo-comportamentali. Circa il 60 per cento delle persone che li prende riscontra una diminuzione dei sintomi del 50 per cento nel giro di due mesi: nella pratica ha un umore migliore, dorme meglio e così via. Che non siano i farmaci migliori possibili non c’è dubbio: ci sono ancora molte cose che gli psichiatri non sanno sulla cura della depressione, che non può essere semplicemente considerata come la conseguenza di uno sbilanciamento di alcuni composti chimici nel cervello. Purtroppo per come funziona l’industria farmaceutica non ci sono moltissime ricerche in questo campo.

Tutti gli articoli pubblicati finora sui giornali generalisti a proposito dello studio di Lancet sono molto entusiasti. Un articolo di New Scientist però invita a considerare con attenzione i dati dello studio: gli studi che in passato avevano messo in discussione l’efficacia degli antidepressivi riguardavano persone con depressioni leggere o moderate, mentre la maggior parte delle 120mila persone i cui dati sono confluiti nell’ultimo studio avevano depressioni gravi. Per questo, dice Clare Wilson del New Scientist, i titoli entusiasti sono veri per chi ha una forma di depressione grave, ma non per tutti gli altri. Non è una cosa da poco, considerando che le forme meno intense di depressione sono le più diffuse. Non sappiamo bene quali siano gli effetti degli antidepressivi su queste persone e molti pensano che gli psichiatri glieli prescrivano con troppa facilità spesso senza informare bene i pazienti degli effetti collaterali, tra cui la perdita del desiderio sessuale e l’insorgenza di stati di agitazione.

Un’altra critica che Wilson fa allo studio di Lancet riguarda l’affidabilità degli studi di partenza, quelli di cui sono stati confrontati i dati. «L’esperienza ha dimostrato che le aziende farmaceutiche possono tagliare e giocare con i dati per far sembrare i loro risultati migliori di quelli che sono», scrive Wilson. Un esempio: uno studio della paroxetina fatto nel 2001 (non considerato nello studio di Lancet) diceva che il farmaco aveva un tasso di effetti collaterali simile a quello del placebo. Nel 2015 però un gruppo di ricercatori ha rivisto i dati originali dello studio e ha visto che la paroxetina era legata a un maggior numero di casi di autolesionismo e minacce di suicidio.

Wilson sottolinea anche che lo studio non dice nulla sull’efficacia degli antidepressivi nella cura di altri disturbi per cui vengono prescritti, come l’ansia e alcune fobie, né sul fatto che per molte persone è difficile interrompere una terapia a base di antidepressivi, dato che esistono effetti collaterali specifici quando si riduce il dosaggio. Generalmente si consiglia di ridurlo gradualmente, ma non è sempre possibile farlo, perché alcuni antidepressivi non vengono prodotti in dosaggi abbastanza piccoli. Lo studio non dice nulla nemmeno sulle terapie che durano più di otto settimane, i cui dati non sono stati considerati. Per questo è giusto considerare importante questo studio, ma non definitivo.

La ragione per cui ci sono così tanti dubbi sugli antidepressivi è che hanno effetti diversi a seconda della persona a cui vengono prescritti: molti pazienti dicono che smussano le emozioni, alcune persone li odiano e dicono che le fanno sentire come zombie, altre che sono in grado di risollevarli dal cattivo umore. Anche per gli effetti collaterali ci sono diverse esperienze. Secondo Wilson, questa confusione è la ragione per cui sugli antidepressivi esiste un dibattito molto polarizzato e spesso ideologico ma «come è spesso il caso con la scienza, la realtà potrebbe stare da qualche parte nel mezzo».

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In ordine di efficacia, da maggiore a minore, i farmaci antidepressivi presi in considerazione dallo studio pubblicato su Lancet (non tutti in commercio in Italia) sono questi:

1. amitriptilina (Adepril, Laroxyl, Triptizol)
2. mirtazapina (Remeron)
3. duloxetina (Cymbalta, Xeristar)
4. venlafaxina (Efexor, Faxine, Zarelis)
5. paroxetina (Sereupin, Seroxat, Eutimil, Daparox)
6. milnacipran
7. fluvoxamina (Maveral, Fevarin, Dumirox)
8. escitalopram (Cipralex, Entact)
9. nefazodone
10. sertralina (Zoloft, Serad)
11. vortioxetina (Brintellix)
12. agomelatina (Valdoxan, Thymanax)
13. vilazodone
14. levomilnacipran
15. bupropione (Elontril, Quomen, Zyban, Corzen)
16. fluoxetina (Prozac, Aliantil, Clexiclor, Diesan e altri)
17. citalopram (Adiston, Bendiral, Elpram e altri)
18. trazodone (Trittico)
19. clomipramina (Anafranil)
20. desvenlafaxina
21. reboxetina (Davedax, Edronax)

In ordine di accettabilità, calcolata sulla base del tasso di abbandono dei test, invece:

1. agomelatina (Valdoxan, Thymanax)
2. fluoxetina (Prozac, Aliantil, Clexiclor, Diesan e altri)
3. escitalopram (Cipralex, Entact)
4. nefazodone
5. citalopram (Adiston, Bendiral, Elpram e altri)
6. amitriptilina (Adepril, Laroxyl, Triptizol)
7. paroxetina (Sereupin, Seroxat, Eutimil, Daparox)
8. milnacipran
9. sertralina (Serad)
10. bupropione (Elontril, Quomen, Zyban, Corzen)
11. mirtazapina (Remeron)
12. vortioxetina (Brintellix)
13. venlafaxina (Efexor, Faxine, Zarelis)
14. desvenlafaxina
15. duloxetina (Cymbalta, Xeristar)
16. fluvoxamina (Maveral, Fevarin, Dumirox)
17. vilazodone
18. trazodone (Trittico)
19. reboxetina (Davedax, Edronax)
20. levomilnacipran
21. clomipramina (Anafranil)