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  • Domenica 24 dicembre 2017

Comincia la “fase due” di Brexit

Che cosa significa? Di cosa si parlerà nelle prossime settimane? E cosa c'entrano la Norvegia e il Canada?

Skyline di Londra (TOLGA AKMEN/AFP/Getty Images)
Skyline di Londra (TOLGA AKMEN/AFP/Getty Images)

La scorsa settimana il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk ha annunciato che l’Unione Europea e il Regno Unito avevano trovato un accordo per iniziare la cosiddetta “fase due” dei negoziati su Brexit, quella relativa ai trattati commerciali che dovranno regolare i rapporti tra Unione Europea e Regno Unito quando quest’ultimo sarà fuori dal mercato unico europeo. Questo significa che inizieranno presto i colloqui tra i 27 paesi che rimarranno nell’UE dopo Brexit per mediare e trovare un compromesso tra tutti i loro interessi economici, e successivamente un compromesso con gli interessi economici del Regno Unito.

La seconda fase inizierà dalla discussione sulla durata e sulle modalità del periodo di transizione che dovrebbe iniziare a partire dal 29 marzo 2019, data di uscita formale del Regno Unito. Sarà un periodo – di circa due anni – in cui anche se il Regno Unito sarà già fuori dalla Unione Europea (quindi senza diritto di voto in tutte le sue decisioni) ma continuerà a far parte del mercato unito e a rispettarne le regole. Poi, da marzo, si comincerà a lavorare sugli accordi che entreranno in vigore dopo il periodo di transizione, e non è una cosa semplice. Il problema principale, semplificando, è questo: il Regno Unito deciderà di allinearsi a norme e regolamenti dell’Unione Europea dando priorità all’accesso al mercato unico e sacrificando il controllo su leggi e confini, o divergerà dagli standard, dal controllo delle leggi e dei confini sacrificando quindi l’accesso privilegiato al mercato unico?

La prima soluzione è il cosiddetto modello norvegese. La Norvegia non fa parte dell’Unione Europea, non ha deputati nel Parlamento, non partecipa ai vertici europei, ma è fortemente allineata all’Unione Europea e integrata nel mercato interno dei paesi che ne fanno parte, con l’eccezione di alcuni settori: assicura quindi la libera circolazione delle persone sul suo territorio, le sue merci possono viaggiare liberamente in Europa, riconosce la Corte di giustizia europea nel risolvere le controversie, ma non ha alcun diritto di influenzare i processi decisionali dell’Unione. Accettare questa soluzione per Theresa May sarebbe però una grossa sconfitta e le causerebbe diversi problemi dentro il suo partito: sarebbe vista come un tradimento degli ideali di Brexit e della promessa di liberare il Regno Unito dalle limitazioni e dalla burocrazia dell’Unione Europea.

Lo spezzone di un documentario del 2016 a favore di Brexit, che si lamenta delle troppe leggi e regole imposte dall’Unione Europea.

L’altra soluzione potrebbe essere quella “canadese” e significherebbe negoziare con l’Unione Europea un dettagliato ma limitato accordo commerciale. Il Canada ha legami commerciali piuttosto liberi con l’Unione: ha un accesso preferenziale al mercato unico europeo senza tutti gli obblighi che ha la Norvegia né la maggior parte dei dazi commerciali. Il rapporto tra Canada e Unione Europea è regolato dal “Comprehensive Economic and Trade Agreement”, CETA, che però è stato raggiunto dopo sette anni di trattative e comunque regola i rapporti con un’economia che è molto meno dipendente da quella dell’Unione Europea di quanto non lo sia quella britannica.

All’interno del partito conservatore di Theresa May le posizioni su queste questioni sono molto frammentate, tuttavia è possibile che nelle prossime settimane il governo lavorerà per tentare di trovare una convergenza sul modello “Canada plus plus plus”. Si tratterebbe di una soluzione “speciale”: più ampia di quella con il Canada, per esempio sui temi della sicurezza, dei servizi finanziari, delle auto, dei prodotti farmaceutici o agricoli, ma meno vincolante di quella con la Norvegia. L’accordo con il Canada è infatti più orientato verso i beni che verso i servizi che costituiscono però l’80 per cento dell’economia britannica e che il Regno Unito vorrebbe dunque includere.

Questo naturalmente è il desiderio del Regno Unito, che vorrebbe continuare ad avere rapporti economici con l’Unione Europea anche in futuro senza doverne rispettare tutte le regole e senza essere soggetta alla sua giurisdizione. L’Unione Europea, da parte sua, non vuole fare troppe concessioni al Regno Unito (per non incentivare altri paesi a seguire la stessa strada) ma non vuole nemmeno dover rinunciare del tutto ai rapporti economici col paese. Il capo negoziatore dell’Unione Europea, Michel Barnier, ha spiegato che il Regno Unito dovrà ammorbidire le sue posizioni e rinunciare all’idea di uscire sia dal mercato unico che dall’Unione doganale, altrimenti non sarà possibile raggiungere un accordo che includa l’accesso ai servizi e che permetta alle grandi banche di Londra, per fare un esempio, di esportare i loro servizi finanziari nei paesi dell’Unione Europea. Secondo gli esperti, l’Unione Europea metterà alle strette il Regno Unito obbligandolo a scegliere tra due modelli: o Norvegia o Canada. E nel caso del Canada, dicono, il Regno Unito si dovrà dimenticare del “plus plus plus”.

Il New York Times scrive che comunque andrà la posta in gioco è molto alta perché quasi tutti gli esperti prevedono che Brexit danneggerà l’economia britannica: «Il Regno Unito peggiorerà economicamente al di fuori dell’UE» ha ad esempio dichiarato Charles P. Ries, vicepresidente della RAND Corporation, organizzazione statunitense, e autore di un recente rapporto sulle prospettive economiche del Regno Unito dopo Brexit. «La domanda chiave è: quanto peggiorerà?».

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