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  • Martedì 12 settembre 2017

Perché è esondato il Rio Maggiore

Sul Corriere della Sera Marco Imarisio spiega che a Livorno erano stati fatti dei lavori per evitare le inondazioni, ma che si sono rivelati insufficienti

(ANSA/ALESSIO NOVI)
(ANSA/ALESSIO NOVI)

Oggi, sul Corriere della Sera, Marco Imarisio ha spiegato come mai il Rio Maggiore, il torrente che attraversa Livorno, è straripato causando la morte di otto persone. Imarisio racconta che nel 2012 il Comune fece dei lavori per mettere in sicurezza il fiume, ma che questi non si sono rivelati sufficienti. All’epoca il Comune aveva fatto costruire delle “casse di compensazione”, cioè dei “serbatoio” a cielo aperto nei quali può affluire l’acqua in eccesso durante un momento di forti piogge. I serbatoi erano stati costruiti con in mente un “tempo di ritorno” di 200 anni, cioè avrebbero dovuto essere in grado di assorbire l’acqua in eccesso di un temporale con un’intensità tale che se ne vede uno ogni due secoli. Il problema è che un temporale ancora più forte ha colpito la città a soli 5 anni dalla conclusione dei lavori. Oggi, la legge regionale prescrive casse di compensazione progettate per eventi con un tempo di ritorno di 500 anni (più rari, e quindi più intensi).

Il battesimo dell’acqua è avvenuto la scorsa notte. Quella che doveva essere l’opera definitiva per proteggere la città non era mai stata utilizzata prima. Non ce n’era mai stato bisogno. Le quattro casse di espansione che dall’ottobre del 2015 vigilano sul Rio Maggiore, il solito sospetto di ogni allagamento livornese, si sono riempite. Non è bastato. Le vasche di cemento armato si sono rivelate, piccole, troppo piccole. L’acqua in eccesso caduta dal cielo ha potuto continuare la sua corsa sotterranea intasando i tubi, facendo esplodere i canali seminterrati, provocando la morte di sette persone.

Il piano sicurezza
La protezione della zona sud di Livorno era affidata a un’opera nata vecchia. «Problema risolto». Il 7 maggio 2012 l’amministrazione comunale annunciò in una conferenza stampa dai toni trionfali il via libera al progetto delle casse di espansione, che avrebbero tenuto al loro interno le acque piovane in eccedenza del Rio Maggiore. «Il tassello definitivo per la messa in sicurezza del territorio». Gli scavi e le arginature erano già cominciati. Agli abitanti quell’opera non sarebbe costata nulla. Era una specie di baratto. «A scomputo delle opere di urbanizzazione». La formula è questa. Il Comune dava il via libera alla lottizzazione dell’area dietro il cimitero della Misericordia sulla quale sarebbe poi sorto il «Nuovo centro», un chilometro quadrato di uffici, residenze e commerci, approvando una apposita variante al Piano regolatore. L’ente attuatore, ovvero la società Le Ninfee, creata appositamente dal gruppo Fremura e dalle Unicoop Tirreno e Firenze, ricambiava assumendosi i costi delle quattro vasche sul Rio maggiore, 5,2 milioni. L’iniziativa venne esibita come un connubio virtuoso tra pubblico e privato.

Il progetto
Le casse sono state ideate e costruite per mantenere al loro interno delle portate d’acqua con un tempo di ritorno di 200 anni. È un tempo statistico legato all’intensità delle precipitazioni. Maggiore è la quantità di pioggia caduta nel minor tempo possibile, maggiore è il tempo di ritorno, ovvero la possibilità che si ripeta quell’evento. E duecento anni sembrano davvero tanti. Invece è un numero che però solo a prima vista può fare impressione. In quel 2012 era già cambiato qualunque parametro. C’era già stata l’alluvione nello spezzino e i suoi 16 morti, c’era già stata la tragedia del Fereggiano, il rio genovese che il 5 ottobre 2011 travolse e uccise sei persone nel centro della città. Ormai dal 2009 era già in voga l’orrido neologismo, «la bomba d’acqua» che indica un temporale molto forte, di regime tropicale. Ma le opere di messa in sicurezza di rivi e torrenti erano regolate dal Piano di assetto idrogeologico approvato dalla Regione Toscana nel 2003, che prevedeva stati di pericolosità a 30, 100 e 200 anni. E il piano di gestione del rischio alluvioni del Distretto di bacino, un ufficio regionale, imponeva gli stessi parametri.

Il commissario
La legge era questa. Il Comune chiese e ottenne che fosse commissionato uno studio all’ingegner Stefano Pagliara, docente di Protezione idraulica del territorio all’università di Pisa. Il quesito riguardava il modo in cui si sarebbero dovute costruire le vasche, la loro estensione e la loro profondità. Il professore non si limitò al tempo di ritorno dei duecento anni. Le tabelle del professore facevano anche proiezioni a 300 e 500 anni includendo valutazioni di afflusso e deflusso delle acque. Nel suo studio non escludeva infatti la possibilità che sulla base delle precipitazioni registrate negli ultimi 5 anni potesse essere necessario allungare il tempo di ritorno. Insomma, avvisava del rischio che potesse piovere molto più di quanto immaginato dalla legge regionale.

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