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  • Sabato 4 febbraio 2017

Trump ha cambiato idee in politica estera?

Le ultime uscite su Iran, Israele e Russia sono state più in linea con quanto fatto da Obama, ha scritto il New York Times, ma non è detto che duri

(Drew Angerer/Getty Images)
(Drew Angerer/Getty Images)

Durante la sua campagna elettorale per la presidenza degli Stati Uniti, Donald Trump aveva criticato molto la politica estera dell’amministrazione Obama, che tra le altre cose secondo lui avrebbe contribuito all’ascesa dello Stato Islamico e reso più debole l’America nel mondo. Ora che si ritrova a fare il presidente, ha scritto il New York Times, Trump sembra però non essere intenzionato a fare tutto quello promesso o sostenuto in campagna elettorale,almeno non nei modi e nei tempi annunciati, a giudicare da questi. Di recente, infatti, Trump ha preso delle decisioni che si potrebbero definire abbastanza in continuità con quelle di Obama: la sua amministrazione ha mandato un avvertimento a Israele sulla costruzione di nuovi insediamenti, ha chiesto alla Russia di ritirare le sue truppe dalla Crimea e ha approvato nuove sanzioni all’Iran per i recenti test missilistici che Trump sostiene essere stati contrari a una risoluzione ONU.

È ancora difficile dire quale sarà la politica estera di Trump, anche perché le prime decisioni prese dalla sua amministrazione hanno mostrato un certo livello di imprevedibilità. C’è una prima cosa da tenere a mente, ha scritto il New York Times, e cioè che le nuove amministrazioni spesso falliscono nel tentativo di cambiare la politica estera dei loro predecessori così radicalmente come avevano promesso: semplicemente perché governare è ben diverso che fare campagna elettorale. E poi c’è da considerare un’altra cosa: le posizioni su Israele, Ucraina e Iran sono arrivate dopo giorni di grandi polemiche e critiche, soprattutto per le conseguenze del cosiddetto “muslim ban“, che ha creato tensioni per esempio con il governo iracheno (alleato degli Stati Uniti), e di alcune telefonate nelle quali Trump «ha allegramente sfidato l’ortodossia diplomatica» mettendo a rischio una relazione bilaterale dopo l’altra. Le ultime mosse potrebbero quindi essere un tentativo di rientrare nei ranghi, diciamo così, dopo avere rischiato di andare troppo oltre e troppo in fretta.

Negli ultimi due giorni sono successe tre cose importanti relative alla politica estera di Trump.

Giovedì, nel suo primo discorso al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, l’ambasciatrice degli Stati Uniti Nikki R. Haley ha detto che l’obiettivo della sua amministrazione sarà «migliorare le relazioni con la Russia», ma ha aggiunto che «la disastrosa situazione in Ucraina orientale richiede una condanna chiara e forte delle azioni della Russia». La dichiarazione di Haley è stata ripresa da diversi giornali internazionali, anche perché in molti si aspettavano un atteggiamento da subito molto più conciliante di Trump nei confronti di Vladimir Putin, verso il quale in campagna elettorale lo stesso Trump aveva espresso più volte il suo apprezzamento. Sarebbe stato comunque difficile per Haley dire una cosa diversa da questa, a meno di provocare enormi reazioni da parte del governo ucraino e dei paesi dell’Unione Europea. Il fatto che il governo russo non abbia replicato con toni duri dimostra poi come la questione rimanga più che aperta e che non si sia verificata alcuna rottura tra i presidenti di Stati Uniti e Russia.

Una cosa simile è successa con Israele. Dopo aver fatto del sostegno a Israele uno dei punti centrali della sua annunciata politica estera, Donald Trump – scrive il New York Times – ha fatto «una dichiarazione inaspettata» in cui ha avvertito il governo di Benjamin Netanyahu che la costruzione di nuovi insediamenti potrebbe non aiutare il raggiungimento della pace con i palestinesi.

Nell’ultima settimana il governo di Israele ha annunciato di aver approvato la costruzione di circa tremila nuove unità abitative nelle proprie colonie in Cisgiordania, cioè quei territori che la comunità internazionale ha assegnato al futuro stato palestinese. In precedenza il governo aveva approvato la costruzione di altre 2.500 unità in Cisgiordania oltre a 566 a Gerusalemme est, che lo stato israeliano occupa da quasi 50 anni. In tutto nel giro di pochi giorni è stata dunque approvata la costruzione di più di 6.000 abitazioni, cioè quante ne sono state effettivamente costruite in tre anni, fra il 2013 e il 2015. In molti hanno fatto notare come questa decisione da parte di Israele sia arrivata in corrispondenza all’insediamento di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, che ha alcuni membri dello staff molto vicini alla destra israeliana. Trump aveva per esempio annunciato la sua volontà di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, e a dicembre si era opposto all’astensione americana alla risoluzione ONU contro gli insediamenti israeliani nei cosiddetti “territori occupati”.

La nota della Casa Bianca su Israele, da cui si possono tirare fuori diverse riflessioni, dice: «Anche se non crediamo che l’esistenza degli insediamenti sia un ostacolo per la pace, la costruzione di nuovi insediamenti o l’ampliamento di quelli esistenti al di là degli attuali confini potrebbe non essere utile al raggiungimento di questo obiettivo». L’amministrazione si è riservata di prendere una “posizione ufficiale” dopo l’incontro con il premier israeliano Benjamin Netanyahu a Washington il prossimo 15 febbraio, e d’altra parte lo stesso governo israeliano non ha avuto una reazione dura contro Trump; ma nel frattempo e con toni più cauti rispetto a quelli di Barack Obama, Trump ha inviato comunque un messaggio a Israele. Il cambio di atteggiamento sarebbe arrivato dopo l’incontro di Trump il Re di Giordania, Abdullah II: la Giordania ospita molti rifugiati palestinesi e il re ha criticato la politica degli insediamenti di Israele. La nota della Casa Bianca è poi coincisa, scrive il New York Times, con il primo giorno da segretario di Stato di Rex Tillerson e con l’arrivo del nuovo segretario alla Difesa Jim Mattis in Corea del Sud: «entrambi sono visti come potenzialmente in grado di esercitare un’influenza moderatrice sul presidente».

Alcuni osservatori si sono concentrati sulla frase presente nella nota che dice «oltre i confini attuali»: potrebbe essere l’accenno a un ritorno alla politica del presidente George W. Bush, quando nel 2004 riconobbe che non era realistico aspettarsi che Israele abbandonasse i suoi principali insediamenti, ma anche che l’esito dei negoziati finali potesse prevedere comunque una sorta di compensazione territoriale. L’ex primo ministro israeliano Ariel Sharon aveva proposto di abbandonare una larga parte degli insediamenti, mantenendo solo dei grandi blocchi a ridosso della linea verde e intorno a Gerusalemme. La linea verde risaliva agli accordi d’armistizio arabo-israeliani del 1949. Questi grandi blocchi sarebbero dovuti restare sotto sovranità israeliana, sulla base di scambi territoriali «mutuamente concordati con i palestinesi».

La posizione più netta presa finora dalla nuova amministrazione è certamente quella contro l’Iran, ma il New York Times sostiene comunque che quanto fatto finora da Trump non sia poi così lontano dalle politiche dell’amministrazione Obama. Da una parte Michael Flynn, principale consigliere del presidente Trump sulla sicurezza nazionale, ha usato toni molto duri contro il governo iraniano, accusandolo di avere «un atteggiamento destabilizzante in tutto il Medio Oriente» e citando in particolare l’intervento iraniano in Yemen a favore dei ribelli Houthi. Flynn ha inoltre denunciato la violazione iraniana di una risoluzione dell’ONU a seguito di un test missilistico confermato anche dal ministro della Difesa iraniano (ma l’Iran nega che si possa parlare di violazione della risoluzione). Venerdì gli Stati Uniti hanno annunciato sanzioni contro 13 persone e alcune società iraniane per il test missilistico. Trump ha scritto su Twitter che non sarà «gentile» come Obama, e Flynn ha detto che «i giorni in cui si chiudeva un occhio sulle azioni ostili e bellicose dell’Iran contro gli Stati Uniti e la comunità internazionale sono finiti».

Le sanzioni economiche, le prime decise dall’amministrazione Trump, sono simili a quelle che Obama aveva deciso poco più di un anno fa. Probabilmente però non avranno grandi effetti, visto che le aziende che vendono componenti per costruire i missili all’Iran solitamente non hanno a che fare con gli Stati Uniti, e i paesi europei si sono mostrati molto più riluttanti ad adottare nuove sanzioni. A differenza di quanto aveva fatto l’amministrazione Obama, però, venerdì il dipartimento del Tesoro americano, annunciando le sanzioni, ha parlato delle «attività maligne compite dall’Iran all’estero», riferendosi implicitamente alle milizie sciite che combattono in Siria e in Iraq. Il commentatore di BBC Kim Ghattas ha scritto che «ci possono ancora essere richiami alle strategie di Obama, ma l’impostazione generale dell’approccio [verso l’Iran] è cambiato e Trump e la sua amministrazioni stanno chiaramente facendo capire che vogliono indebolire l’Iran». Nonostante le aperte critiche all’Iran, in linea con gli annunci molto bellicosi fatti finora da Trump nei confronti dei religiosi iraniani, l’attuale amministrazione non sembra intenzionata, almeno per ora, a smantellare l’importante accordo sul nucleare concluso da Obama nel 2015, a differenza di quanto annunciato in campagna elettorale. Flynn ha comunque detto venerdì che l’atteggiamento dell’Iran è diventato più bellicoso dopo l’accordo, definito «molto favorevole» per l’Iran.