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  • Mercoledì 17 agosto 2016

Israele e la pena di morte

Il processo al soldato che ha ucciso un palestinese senza motivo ha riaperto la discussione: sempre più persone pensano che rispettare i diritti umani sia segno di debolezza

Il 24 marzo 2016 il sergente del corpo medico dell’esercito israeliano Elor Azaria si era avvicinato a un palestinese rimasto ferito dopo aver cercato di accoltellare un militare in un quartiere della città di Hebron, in Cisgiordania. Da una distanza di due metri, Azaria aveva sparato un colpo alla testa del palestinese, che era steso a terra e immobilizzato dalla ferita, e lo aveva ucciso. La scena fu ripresa da un video che circolò moltissimo e fece parlare del caso per diversi giorni in tutto il mondo. Azaria era stato poi arrestato dalla polizia militare: oggi è sotto processo e rischia una condanna per omicidio. Diversi movimenti e partiti di estrema destra israeliani, però, hanno organizzato manifestazioni in suo sostegno per chiederne l’assoluzione, e l’episodio ha riaperto il dibattito su quello che per molti conservatori è l’unico modo di combattere il terrorismo: l’introduzione della pena di morte.

Le indagini hanno dimostrato in maniera piuttosto chiara che il militare ha ucciso il palestinese senza motivo, mentre l’attentatore era inoffensivo. Il suo gesto è stato duramente criticato dal governo e dall’esercito israeliano. Il primo ministro Benjamin Nethanyahu, che è sempre molto protettivo nei confronti dell’esercito, lo ha definito “oltraggioso”; l’allora ministro della difesa Moshe Ya’alon lo ha descritto come contrario ai valori dell’esercito, promettendo che l’incidente sarebbe stato trattato nella maniera più severa possibile. Anche il portavoce dell’esercito ha detto che il gesto di Azaria non ha nulla a che fare con la cultura dell’esercito israeliano né con quella del popolo ebraico.

Ma per la destra israeliana Azaria è rapidamente diventato un eroe, il “nostro ragazzo”, come lo hanno soprannominato numerosi leader politici. Il ministro dell’Istruzione Naftali Bennett, leader del partito di destra religiosa “Casa ebraica”, ha organizzato diverse manifestazioni a suo favore, mentre Avigdor Lieberman, un importante politico della destra laica nominato ministro della Difesa al posto di Ya’alon lo scorso maggio, ha detto che il processo ad Azaria mostra un pericoloso declino nello spirito combattivo degli israeliani e ha chiesto di allentare le regole di ingaggio che secondo lui limitano l’azione dei militari.

L’incidente è avvenuto in un momento problematico per Israele, che da molti mesi si trova ad affrontare un nuovo e allarmante tipo di emergenza terroristica: gli attacchi compiuti da quelli che in Europa definiremmo “lupi solitari”, cioè singole persone armate di coltello o a bordo di macchine o camion che attaccano a sorpresa militari o civili israeliani. Secondo il Meir Amit Intelligence and Terrorism Information Center, dal settembre 2015 alla fine del luglio 2016, ci sono stati 157 attacchi con coltello in Israele e Cisgiordania. Nello stesso periodo ci sono state 101 sparatorie, tra cui una lo scorso giugno al mercato coperto di Tel Aviv, in cui sono stati uccisi quattro israeliani. In tutto 40 persone sono state uccise negli attacchi e altre 527 sono rimaste ferite.

Israele ha risposto con crescente durezza a questo tipo di attacchi. Una delle pratiche più controverse che ha adottato consiste nella demolizione delle case degli autori degli attacchi. I palestinesi e le organizzazioni per i diritti umani definiscono questa pratica una forma di punizione collettiva, vietata dalle leggi internazionali. Nell’ultimo anno, più di duecento palestinesi sono stati uccisi nel corso di questi attacchi o durante gli scontri tra manifestanti palestinesi ed esercito israeliano in Cisgiordania. Secondo numerosi esponenti della destra radicale israeliana, però, le misure adottate finora non sono abbastanza dure e il processo ad Azaria è arrivato proprio mentre nel paese si è ricominciato a parlare della possibilità di introdurre la pena di morte per i reati di terrorismo.

Il dibattito sulla pena di morte va avanti da tempo in Israele. Alle elezioni del 2015 l’attuale ministro della Difesa Lieberman aveva inserito la reintroduzione della pena di morte tra i punti del suo programma. Le elezioni, però, non gli andarono bene e il dibattito è stato riaperto solo dopo l’ultima ondata di attacchi. Israele prevede già la pena di morte in tempo di guerra e per particolari tipi di reato. In tutta la storia del paese però è stata eseguita solo una condanna, quella del criminale nazista Adolf Eichmann nel 1962.

Anche il governo Netanyahu, che inizialmente aveva condannato in maniera molto dura Azaria, sembra avere fatto una parziale marcia indietro negli ultimi mesi. Recentemente il primo ministro Nethanyahu ha detto che spera che Azaria riceva un processo equo, che tenga conto delle circostanze e del contesto in cui si trovava. Un altro segnale importante dello spostamento a destra del governo è stata la decisione di Nethanyahu di sostituire il ministro della Difesa Ya’alon, considerato un moderato e uno dei critici più duri di Azaria, e di farlo proprio con Lieberman. Di recente il governo ha fatto approvare una serie di leggi che sottopongono le organizzazioni per i diritti civili israeliane a una numero sproporzionato di controlli. È stata proprio una di queste organizzazioni, B’Tselem, a diffondere il video che mostra Azaria uccidere il palestinese.

In molti ritengono che la pena di morte non sia una vera soluzione al terrorismo e che invece finirà soltanto con l’inasprire il conflitto. Sul New York Times Nathan Hersh, attivista ed ex militare israeliano, ha scritto un editoriale in cui racconta come il processo ad Azaria abbia mostrato la crescente diffusione di una narrativa che vede il rispetto dei diritti umani come un segnale di debolezza e quindi un potenziale rischio per la sicurezza del paese. Hersh ricorda come durante il processo Azaria abbia accusato l’ex ministro della difesa Ya’alon e i vertici dell’esercito di averlo «dato in pasto ai giornalisti», in un tentativo di «compiacere la sinistra». Hersh racconta anche di aver sentito una conversazione in cui alcuni militari criticavano il comportamento di Azaria e finivano rimproverati dai loro compagni di essere dei «sinistrorsi».

Secondo Hersh è necessario rafforzare una narrazione opposta, e sottolineare come l’unica soluzione a lungo termine per risolvere il problema del terrorismo sia la maggiore cooperazione con i palestinesi e un nuovo processo di pace. Gli Stati Uniti, scrive Hersh, dovrebbero cercare di appoggiare le ONG osteggiate dal governo israeliano perché il loro ruolo è fondamentale in una democrazia sana. Azaria, scrive Hersh, è un «un ragazzo con una prospettiva limitata» che ha compiuto azioni che non si possono scusare, ma quello che ha fatto è il prodotto di 50 anni di storia in cui il terrorismo è stato affrontato con l’occupazione militare. Azaria è lo specchio di un paese che sta sostituendo «la sicurezza e la vendetta alla legge e all’ordine», scrive Hersh. La sentenza del processo ad Azaria dovrebbe arrivare il prossimo 28 agosto.