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  • Lunedì 18 luglio 2016

Perché seguire le convention americane

Oggi comincia uno dei riti più famosi e pieni di storie della politica statunitense, che nel corso del tempo è cambiato molto

di Francesco Costa – @francescocosta

(AP Photo/Charlie Riedel)
(AP Photo/Charlie Riedel)

Avete presente le persone nude dipinte di blu di qualche giorno fa a Hull? Lo stesso artista, Spencer Tunick, ne ha già organizzata un’altra: a Cleveland, negli Stati Uniti, cento donne domenica si sono spogliate fuori dalla Quicken Loans Arena, il grande palazzetto dello sport della città, e hanno sollevato verso il cielo ognuna un grande specchio rotondo, per riflettere la luce. «Le donne decideranno l’esito di queste elezioni», ha detto Tunick al New Yorker. L’installazione umana è stata realizzata infatti il giorno prima che a Cleveland inizi la convention del Partito Repubblicano statunitense.

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Durante le prossime due settimane la politica americana attraverserà uno dei suoi riti più famosi e antichi. Descrivere le convention dei partiti statunitensi a chi ha in mente la politica europea non è semplicissimo: oggi le convention sono allo stesso tempo dei congressi in cui non si decide niente di veramente rilevante, e alcuni tra gli eventi politici più importanti dell’anno; sono lunghissimi spot elettorali con niente di veramente imprevedibile, che le televisioni decidono di trasmettere gratis, e allo stesso tempo possono cambiare la direzione di una campagna elettorale. Quest’anno la convention dei Repubblicani si terrà a Cleveland, in Ohio, dal 18 al 21 luglio; quella dei Democratici si terrà a Philadelphia, in Pennsylvania, dal 25 al 28 luglio.

Un po’ di fotografie storiche dalle convention statunitensi:

La convention è una grande riunione di partito organizzata ogni quattro anni allo scopo di scegliere il candidato alle elezioni presidenziali, scrivere il programma del partito e revisionare le regole interne, comprese quelle con cui sarà scelto il candidato alle primarie di quattro anni dopo. Si tratta però di un evento per lo più “cerimoniale”: il candidato alle presidenziali viene effettivamente scelto dagli elettori alle primarie, e solo formalmente incoronato durante la convention; le decisioni sul programma prese durante la convention hanno valore politico ma non sono vincolanti, ovviamente; le regole delle successive primarie sono una questione burocratica che interessa solo pochi impallinati. Per questo le convention moderne sono innanzitutto degli show: organizzati dal candidato che ha vinto le primarie – anche se non è ancora formalmente il candidato del partito, visto che lo diventerà alla convention stessa – allo scopo di attirare l’attenzione degli elettori e mostrare loro un partito unito, appassionato, popolare e convincente.

Tutto è accuratamente progettato a questo scopo – la lista delle persone che parlano e l’ordine in cui lo fanno, gli ospiti esterni, la coreografia, le musiche, i video – anche se questo non vuol dire che vada sempre tutto liscio. Nel 2012, per esempio, i Repubblicani invitarono Clint Eastwood e lui pensò di pronunciare un discorso sconnesso interamente rivolto a una sedia vuota, che avrebbe dovuto rappresentare Barack Obama. Fu un mezzo disastro.

Tecnicamente, funziona così. Le sezioni statali di ogni partito mandano alla convention i delegati eletti con le primarie. Il numero dei delegati di ogni stato è determinato tenendo conto della sua popolazione ma anche della forza del partito da quelle parti: un posto in cui si vince esprimerà più delegati di un posto in cui si sta sempre all’opposizione. Durante i giorni della convention, la mattina e il pomeriggio ci sono manifestazioni, incontri e riunioni tematiche; dal tardo pomeriggio in poi, invece, ci sono i discorsi più attesi e le operazioni di voto. Le convention durano di solito quattro giorni. Durante uno dei primi tre, viene scelto formalmente il candidato del partito. Il presidente dell’assemblea chiama le delegazioni statali una alla volta, in ordine alfabetico, dall’Alabama al Wyoming. Un portavoce risponde alzando la voce e dice fiero una cosa tipo «il grande stato dell’Iowa esprime 14 delegati per Hillary Clinton e 11 per Bernie Sanders!». I delegati al primo scrutinio sono tenuti a votare per i candidati che hanno sostenuto alle primarie, quindi si sa già come va a finire: tanto che se nel partito non ci sono grosse divisioni, di solito i candidati sconfitti “liberano” i loro delegati, una mossa politica che si traduce di fatto nella nomination per acclamazione del candidato che ha vinto le primarie.

Alla convention dei Democratici del 2008, a un certo punto Hillary Clinton prese la parola chiedendo all’assemblea di interrompere le operazioni di voto e nominare Barack Obama per acclamazione.

La prassi vuole che si tenga per prima la convention del partito di opposizione. Le elezioni presidenziali americane si tengono negli anni delle Olimpiadi, e ogni volta ci girano attorno per non perdere pubblico: nel 2008 i Democratici decisero di aspettare la fine dei Giochi di Pechino, nel 2012 i Repubblicani fecero lo stesso, quest’anno invece hanno deciso di far tutto prima che comincino i Giochi a Rio. Le città che ospitano le convention vengono scelte dai partiti circa due anni prima, e c’è una certa concorrenza: si tratta di eventi che portano moltissime persone in città – e persone molto influenti: per esempio migliaia di giornalisti da tutto il mondo – ma che non richiedono la costruzione di costose infrastrutture come un grande torneo sportivo. A volte i partiti scelgono dove ospitare le convention per comodità geografica – Baltimora, città portuale, ne ha ospitate moltissime all’inizio della democrazia americana; Chicago, al centro della zona più popolosa e produttiva, ne ha ospitate molte altre tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento – oppure per ragioni politiche: nel 2004, la prima elezione dopo l’11 settembre del 2001, i Repubblicani decisero di tenere la convention a New York.

La formula attuale delle convention – più show che sostanza – è relativamente recente. Prima degli anni Settanta, infatti, le convention erano veri crocevia della politica americana. Al momento della fondazione degli Stati Uniti, la politica era un affare per pochissimi: alle elezioni votavano solo i bianchi proprietari terrieri e il presidente non veniva eletto direttamente come adesso, ma dal Congresso. All’epoca quindi le convention erano affollate e caotiche riunioni in cui i parlamentari e i dirigenti del partito decidevano chi sarebbe stato il loro candidato: a volte qualcuno era così forte da ottenere subito la maggioranza dei voti dell’assemblea, altre volte si rendevano necessari decine di scrutini (a quella dei Democratici del 1924 ne servirono più di cento). Anche quando furono introdotte le primarie, a lungo restarono soltanto “consultive”: servivano a capire quali candidati avessero più talento e consenso, ma alla fine i dirigenti del partito sceglievano chi pareva loro. Questo negli anni ha generato situazioni più che incasinate, tanto che fino al 1932 i candidati alla presidenza nemmeno ci andavano alle convention: per modestia, dicevano loro, ma anche per non rischiare di essere messi in imbarazzo.

Nel 1860, per esempio, di convention se ne fecero quattro. Ad aprile i Democratici si riunirono in South Carolina senza trovare l’accordo su un candidato: il partito era spaccato tra favorevoli e contrari alla schiavitù. A giugno si videro di nuovo i Democratici del nord e scelsero un candidato contrario alla schiavitù, mentre i Democratici del sud si riunirono e scelsero un candidato favorevole alla schiavitù. Nel frattempo la convention dei Repubblicani scelse Abraham Lincoln come candidato, che poi vinse le elezioni: e di lì a poco cominciò una guerra civile. Ma alle convention ci sono stati guai anche più recenti.

Nel 1964 a San Francisco i Repubblicani scelsero Barry Goldwater, forse il più estremista candidato alla presidenza di un grande partito negli ultimi sessant’anni, espressione della corrente più conservatrice dei Repubblicani. Goldwater era contrario alle leggi per i diritti civili dei neri e intendeva risolvere la Guerra fredda riscaldandola, diciamo. Il suo sfidante moderato, il newyorkese Nelson Rockefeller, era stato messo in imbarazzo dal suo divorzio e dal suo secondo matrimonio; Goldwater vinse le prime primarie e poi fu inarrestabile. Alla convention i suoi sostenitori fischiarono e insultarono sistematicamente gli oratori più moderati. Quando un suo sostenitore fece il verso agli americani di origini italiane – che vivevano soprattutto nel New England, ed erano relativamente moderati – scoppiò una rissa. Accettando la nomination, Goldwater disse una frase che restò poi famigerata: «L’estremismo nel difendere la libertà è una virtù». A novembre straperse le elezioni presidenziali contro Lyndon Johnson.

Quattro anni dopo a Chicago furono i Democratici a trovarsi in una situazione particolarmente caotica. Il grande movimento pacifista contro la guerra in Vietnam aveva coinvolto un gran pezzo della base dei Democratici e diede grande spinta al senatore Eugene McCarthy, ma il vicepresidente Hubert Humphrey aveva il sostegno dei dirigenti del partito e quindi ottenne la nomination senza nemmeno partecipare alle primarie. Il tutto accadeva nell’anno in cui furono uccisi Martin Luther King e Bobby Kennedy, proprio durante le primarie che stava dominando insieme a McCarthy. Durante la convention di Chicago ci furono grandi proteste represse duramente dalla polizia, che trattò con durezza anche giornalisti e delegati. Quando poi i dirigenti del partito bocciarono una posizione di compromesso sulla guerra, i manifestanti si diressero verso la sala della convention e furono picchiati dalla polizia. Il senatore Abraham Ribicoff – che stava con McCarthy – salì sul palco e denunciò l’uso di «tattiche da Gestapo per le strade di Chicago». Le telecamere indugiarono su Richard Daley, sindaco-padrone della città, alzarsi in piedi e insultarlo («Fuck you. You Jew son-of-a-bitch!»). E Ribicoff: «Quanto è difficile accettare la verità». Non proprio il miglior spot elettorale per un partito che si candidava a governare il paese.

Dopo aver perso le elezioni, i dirigenti dei Democratici capirono che quel sistema aveva smesso di funzionare e lo ribaltarono: la maggioranza dei delegati sarebbe stata eletta con le primarie. Se prima quindi contavano solo le convention, e le primarie quasi niente, dopo sarebbero contate solo le primarie, e le convention quasi niente. I Repubblicani fecero lo stesso.

Quattro anni dopo, questo nuovo equilibrio permise a George McGovern di vincere le primarie del Partito Democratico sostenuto dai movimenti dei neri, dai pacifisti e dalle femministe. I dirigenti del partito non la presero benissimo, cercarono di cambiare le regole in corsa ma fallirono. Tutto bene, quindi? Quasi. Una convention organizzata senza il contributo dei dirigenti del partito – e senza che qualcuno dirigesse qualcosa, concretamente – diventò un’assemblea lunghissima e sconclusionata, con discorsi infiniti che non andavano da nessuna parte, decine di votazioni procedurali e discussioni su faccende marginali. McGovern ottenne la nomination ma pronunciò il suo discorso alle tre del mattino, tanto erano stati caotici i lavori. Anche per questo motivo, dieci anni dopo i Democratici crearono i cosiddetti “superdelegati”: membri di diritto dell’assemblea della convention perché senatori, deputati, dirigenti locali, che potessero intervenire nel caso gli elettori avessero scelto alle primarie un candidato a loro sgradito. Non è mai successo, naturalmente: nessuno vuole prendersi la responsabilità di un simile tradimento della volontà popolare.

Le riforme degli anni Settanta hanno trasformato le primarie in una lotta politica serrata, costosa e avvincente, quindi, disinnescando le possibilità di imprevisti alle convention. Si è andati vicini a qualcosa di imprevisto nel 1976 tra i Repubblicani, quando il presidente uscente Gerald Ford – quello che subentrò a Richard Nixon dopo le dimissioni – fu sfidato dall’emergente governatore della California, Ronald Reagan. Ford ottenne la nomination per un pelo, Reagan pronunciò un discorso della sconfitta così bello che i delegati capirono da che parte sarebbe andato il futuro.

Capire da che parte andrà il futuro è oggi uno dei principali motivi per seguire con attenzione le convention statunitensi. Nel 2004 alla convention dei Democratici parlò anche un semisconosciuto politico locale dell’Illinois, all’epoca candidato al Senato, tal Barack Obama. Il suo discorso durò 17 minuti e fu memorabile e straordinario, oggi largamente considerato il momento che lanciò la carriera politica di Obama. Chris Matthews, famoso giornalista di MSNBC, subito dopo disse in diretta: «Devo dire che mi tremano un po’ le gambe. Ho visto il primo presidente nero». L’editorialista David Brooks, nel frattempo, disse alla PBS: «Ecco perché andiamo alle convention».