La Libia è un casino, di nuovo
Ci sono due governi, due parlamenti, molti gruppi jihadisti e un pezzo di una città controllata dagli alleati dell'IS: ed è un posto che all'Italia interessa parecchio
“Stato fallito” è un’espressione che viene usata sempre più spesso dagli analisti politici per descrivere la situazione di stati che non lo sono più: che hanno perso il controllo del territorio, non hanno più legittimità politica riconosciuta e non sono più capaci di fornire i servizi essenziali alla popolazione. Come la Libia di oggi. In realtà in Libia la situazione è grave e molto confusa da diversi mesi (anche anni, da un certo punto di vista): ci sono due governi, due parlamenti, moltissime milizie armate che agiscono in autonomia, bombardamenti aerei che non è chiaro chi li faccia e di recente anche campi di addestramento dei miliziani dello Stato Islamico.
Mercoledì 3 dicembre il primo ministro ufficiale della Libia, Abdullah al-Thinni, ha detto che le forze armate libiche hanno avviato una campagna aerea militare per riprendere il controllo della capitale Tripoli, che da mesi è sotto il controllo delle milizie islamiste. Il governo di al-Thinni al momento si trova a Tubruq, nell’est della Libia, poco più a est di Derna, la città proclamata di recente provincia del Califfato Islamico. Capire cosa sta succedendo in Libia è molto difficile e capire le alleanze dei gruppi che combattono è ancora più complicato.
Due governi, due parlamenti
Oggi in Libia c’è una guerra civile combattuta da molti gruppi che si distinguono tra loro per posizioni politiche, collocazione geografica, orientamento religioso e così via. Sintetizzando molto, i due gruppi più importanti hanno ciascuno un proprio governo e un proprio parlamento. Da una parte ci sono le forze armate fedeli all’ex generale Khalifa Haftar, che si sono schierate con il governo eletto e internazionalmente riconosciuto che ora si trova nella città orientale di Tubruq. Il primo ministro del “governo ufficiale” è Abdullah al-Thinni. Dall’altra parte c’è un insieme di milizie islamiste che si fa chiamare “Alba della Libia”. Controlla la città di Tripoli dall’agosto del 2014 e il suo primo ministro è Omar Hassi, che ha come obiettivo quello di rovesciare il parlamento eletto nel 2014. Anche Misurata è sotto il controllo della coalizione “Alba della Libia”, visto che le milizie della città hanno dichiarato di recente la loro alleanza al gruppo.
I jihadisti a Derna
C’è anche un terzo gruppo: una specie di coalizione di forze jihadiste controlla Derna, città della Cirenaica di circa 80mila abitanti, nella Libia nord-orientale. Secondo Mohamed Eljarh, esperto libico del centro di ricerca sul Medio Oriente dell’Atlantic Council, della coalizione fa parte anche Ansar al-Sharia: il gruppo responsabile dell’attentato terroristico contro il consolato statunitense di Bengasi dell’11 settembre 2012 in cui rimase ucciso l’ambasciatore americano Christopher Stevens. Già alla fine di ottobre ci sono stati degli scontri all’interno del fronte jihadista e non è ben chiaro lo stato delle alleanze oggi: di certo si sa che Ansar al Sharia di Derna ha dichiarato la sua alleanza all’IS. A fianco di questo gruppo combatte anche l’Islamic Youth Shura Council, formazione nata nella primavera del 2014 anch’essa affiliata all’IS.
Complicarsi la vita
A complicare ancora di più le cose c’è da considerare anche il governo e il parlamento “ufficiali”, che continuano ad esserci anche se hanno molto poco potere. Molti esponenti politici della Libia – gli stessi che intrattengono i rapporti con gli stati occidentali e le Nazioni Unite – sono il riferimento delle milizie che si combattono, anche di quelle più estremiste. Il caso più incredibile ed eclatante risale all’ottobre del 2013, quando l’allora primo ministro Ali Zeidan fu “arrestato” da una milizia legata al ministero dell’Interno, probabilmente all’insaputa del governo. La milizia aveva detto di avere agito in risposta alla cattura del sospetto terrorista libico Abu Anas al-Libi compiuta il 5 ottobre a Tripoli dalle forze speciale statunitensi: Zeidan era stato accusato da diversi parlamentari, e da alcuni gruppi armati libici, di avere autorizzato l’operazione degli americani, non rispettando, dissero loro, la sovranità nazionale della Libia.
I campi di addestramento dello Stato Islamico
Giovedì 4 dicembre il comandante delle forze armate americane in Africa, il generale David Rodriguez, ha confermato l’esistenza di alcuni piccoli campi di addestramento dello Stato Islamico nella Libia orientale. I miliziani dell’IS in Libia, ha detto Rodriguez, sono circa 200 e finora non sembra abbiano ancora sviluppato una forte rete di comando e controllo sul territorio libico. Non è chiaro se i campi siano frequentati solo da libici o anche da stranieri: Rodriguez ha parlato di miliziani dell’IS che sono arrivati in Libia con l’obiettivo di costruire una presenza del gruppo nell’area orientale del paese. Altri analisti si sono limitati, almeno finora, a osservare la presenza di una “provincia” del Califfato Islamico, per di più non estesa su tutta la città di Derna. Rodriguez ha aggiunto che si tratta ancora di una presenza piuttosto limitata e che per ora non c’è la volontà degli Stati Uniti di intervenire. Sembra invece più plausibile che alcuni stati del Medio Oriente impegnati nella coalizione contro lo Stato Islamico, più l’Egitto (che ha avviato delle politiche molto repressive nei confronti dei movimenti islamisti in generale), aumentino gli aiuti alle forze non islamiste che combattono in Siria.
Interventi esterni e prospettive
Il governo ufficiale libico ha accusato più volte il Qatar e la Turchia di sostenere gli islamisti di “Alba della Libia”, mentre “Alba della Libia” ha accusato l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti di armare e sostenere le forze governative. Da diversi mesi anche le forze paramilitari del generale Haftar hanno compiuto degli attacchi aerei sui territori controllati dagli islamisti nella Libia occidentale. Bernadino León, inviato delle Nazioni Unite in Libia e mediatore per un possibile accordo di pace, ha detto che la nuova operazione militare delle forze governative su Tripoli potrebbe minare la possibilità di raggiungere una pace con mezzi pacifici. L’obiettivo delle Nazioni Unite è la creazione di un governo di unità nazionale, ma le aspettative per un accordo non sono buone, visto che entrambe le parti sono convinte di poter vincere la guerra.
E l’Italia cosa fa?
Gli interessi italiani in Libia sono soprattutto di due tipi: c’è la questione energetica, legata in particolare alle attività dell’ENI che sono concentrate nella regione occidentale della Tripolitania, oggi controllata dagli islamisti; e c’è il problema dei flussi migratori, che dalla Libia arrivano fino alle coste dell’Italia meridionale (dalla Libia non partono solo i libici: migliaia di persone attraversano i rispettivi paesi per imbarcarsi sulle navi libiche dirette in Italia). Alla fine di novembre il ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni, aveva ipotizzato in un’intervista a Repubblica la possibilità per l’Italia di mandare dei soldati in Libia all’interno di una missione di peacekeeping delle Nazioni Unite. Ezzedin al Awami, designato prossimo ambasciatore libico a Roma, ha detto però che “il popolo libico non accetterebbe la presenza di peacekeeper stranieri” e che l’Italia dovrebbe invece rafforzare il ruolo del parlamento eletto.
Il problema è che l’Italia, come diversi altri paesi europei, si trova nel mezzo di un “dilemma diplomatico”, come l’ha definito Karim Mezran del centro studi sul Medio Oriente dell’Atlantic Council. Appoggiare il governo ufficiale della Libia, quello che ha sede a Tubruq ed è stato votato dal 18 per cento degli aventi diritto al voto lo scorso giugno, significherebbe rompere i rapporti con gli islamisti dell’ovest. Cioè significherebbe danneggiare gli interessi dell’ENI, e creare grossi problemi di sicurezza all’ambasciata italiana a Tripoli, l’unica che è rimasta aperta senza interruzioni dalla caduta di Mu’ammar Gheddafi. Appoggiare i ribelli islamisti in Tripolitania significherebbe prendere una posizione che oggi sembra ingiustificabile, visto che l’unico governo con una legittimità popolare è quello di Tubruq.