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  • Giovedì 6 novembre 2014

Lo Stato Islamico sta perdendo?

Non proprio, ma ha rallentato molto la sua avanzata in Iraq: c'entrano i bombardamenti americani, ma anche la demografia e la battaglia di Kobane

Men stand on the roof of a mosque during a solidarity rally with the Syrian city of Kobani in the village of Caykara, Turkey, on the Turkey-Syria border, just across from Kobani, Saturday, Nov. 1, 2014. Tens of thousands of Kurds are rallying in Turkish cities in solidarity with the embattled Syrian city of Kobani, which has been under a brutal siege by the Islamic State group. (AP Photo/Vadim Ghirda)
Men stand on the roof of a mosque during a solidarity rally with the Syrian city of Kobani in the village of Caykara, Turkey, on the Turkey-Syria border, just across from Kobani, Saturday, Nov. 1, 2014. Tens of thousands of Kurds are rallying in Turkish cities in solidarity with the embattled Syrian city of Kobani, which has been under a brutal siege by the Islamic State group. (AP Photo/Vadim Ghirda)

Negli ultimi giorni giornalisti e analisti internazionali hanno cominciato a parlare di una nuova fase della guerra dello Stato Islamico (IS), il gruppo estremista sunnita che la scorsa estate ha proclamato un Califfato Islamico a cavallo tra Siria e Iraq: l’IS starebbe cominciando “a perdere”, dopo mesi in cui la sua avanzata militare era sembrata pressoché inarrestabile. Ne hanno scritto per esempio Zack Beauchamp su Vox e Ben Hubbard sul New York Times: l’argomento principale è che gli attacchi aerei americani e il rafforzamento delle milizie curde che stanno combattendo contro l’IS nel nord dell’Iraq e della Siria abbiano cominciato a produrre i primi effetti.

Come riconoscono però diversi analisti, la questione è molto più complicata. Parlare di una sconfitta dell’IS – oltre che essere prematuro – è un’ipotesi che non sembra essere confermata del tutto dai recenti sviluppi nell’area: c’entrano diverse cose, tra cui i fallimenti della strategia dell’amministrazione Obama, la debolezza dell’esercito iracheno e la battaglia di Kobane. Più che di “sconfitta” sembra quindi più opportuno parlare di “frenata”; ma solo in Iraq, visto che in Siria la situazione è ancora diversa.

Quanto c’entrano gli attacchi aerei americani?
Rispetto all’inizio dell’estate – quando la stampa internazionale cominciava a occuparsi dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (allora si chiamava ancora ISIS) per le sue rapide conquiste territoriali in Iraq e il suo ruolo sempre più preminente nella guerra siriana – è cambiato l’atteggiamento degli Stati Uniti. L’amministrazione di Barack Obama ha iniziato a compiere diversi attacchi aerei sulle postazioni dell’IS prima in Iraq e poi anche in Siria, bloccando l’avanzata dell’IS in diverse zone e modificando il corso di alcune battaglie, come quella di Kobane, città curda al confine con la Turchia. Gli attacchi aerei in Siria hanno anche colpito alcuni giacimenti petroliferi e piccole raffinerie controllate dall’IS, diminuendo la capacità del gruppo di estrarre e lavorare il greggio (la cui vendita, secondo alcune stime, è la fonte principale delle entrate dello Stato Islamico).

Gli attacchi, tuttavia, non possono essere considerati decisivi: la loro frequenza e intensità è stata messa in dubbio in diverse occasioni, e la loro efficacia si è ridotta molto per il fatto di non poter beneficiare di truppe di terra che indicassero il “bersaglio” da colpire. Inoltre l’IS stesso si è adattato rapidamente: per esempio, i suoi miliziani hanno cominciato a muoversi sempre meno in lunghi e riconoscibili convogli e a preferire gli spostamenti in motocicletta, più difficili da individuare e colpire. Oppure hanno cominciato a usare nuovi modi per conquistare le città: hanno smesso di riversarsi verso un centro urbano con una forza militare massiccia e molto superiore rispetto ai nemici, e hanno cominciato a usare invece “cellule dormienti” che indeboliscono l’obiettivo dall’interno.

Demografia e altro
Hubbard ha scritto sul New York Times che i motivi dell’indebolimento dell’IS sono soprattutto altri, però. Primo: l’IS ha già sfruttato tutte le aree più favorevoli alla sua avanzata, ovvero zone povere abitate da tribù sunnite che hanno perso il contatto con il governo centrale di Baghdad o che si sono ribellate contro il regime siriano di Bashar al Assad: non è stato in grado invece di stabilire il controllo di aree con una popolazione non-sunnita (ad eccezione delle città abitate da yazidi nel nord dell’Iraq). Come ha detto Lina Khatib, direttore del Carnagie Middle East Center di Beirut, «l’ISIS può espandersi solo nelle aree dove riesce a stabilire delle partnership con la popolazione locale». Ha fatto la parte facile, insomma, che ora è finita.

Secondo: alcune comunità sunnite prima alleate con l’IS si stanno ribellando. Hubbard cita il caso della provincia irachena di Diyala, a nord-est di Baghdad, dove le forze di terra irachene hanno tagliato le linee di rifornimento dell’IS e ucciso diversi leader locali del gruppo (le fonti che hanno raccontato l’episodio sono rimaste anonime). Questo, insieme alla riorganizzazione dell’esercito iracheno, all’offensiva dei peshmerga curdi e soprattutto delle milizie sciite, ha permesso la riconquista di alcune postazioni prima controllate dall’IS: per esempio il passaggio di confine di Rabia tra Iraq e Siria e la riapertura di alcune grosse strade nell’Iraq centrale.

Il problema di Anbar e della Siria
In diverse zone dell’Iraq, come detto, l’avanzata dell’IS è stata fermata, o per lo meno rallentata. Un grosso problema per il governo iracheno e gli Stati Uniti rimane però la provincia occidentale di Anbar – a maggioranza sunnita e con una lunga storia di contrapposizione all’influenza americana e al potere sciita di Baghdad – dove a fine ottobre l’IS ha rafforzato il suo controllo. L’andamento “anomalo” della guerra in questa provincia irachena è stata spiegata da alcuni con la presenza di un comandante diventato ormai quasi leggendario tra i membri dell’IS: il ceceno Abu Umar al-Shishani, che userebbe tattiche molto diverse rispetto a quelle impiegate dal gruppo in altre zone del paese (fra gli altri, a fine ottobre il Daily Beast dedicò un lungo articolo ad al-Shishani).

In Siria la situazione per l’IS è molto diversa da quella in Iraq: qui l’IS non ha perso terreno, non è stato “ricacciato” indietro in maniera significativa da nessuno dei territori conquistati e di recente è avanzato nel nord, dalle parti di Aleppo, una zona a lungo contesa tra ribelli ed esercito siriano. Beauchamp scrive su Vox: «In Siria l’ISIS non sta affrontando lo stesso tipo di controffensiva che si trova davanti in Iraq. Ma sta soffrendo di una significativa ferita autoinflitta: lo stupido e controproducente assedio di Kobane», che come avevano già osservato diversi analisti nelle ultime settimane sembra avere poco a che fare con la strategia dell’IS. Kobane, per delle ragioni legate più al prestigio che altro, è diventata una battaglia “simbolica” da vincere per forza sia per gli americani che per l’IS.

E quindi chi sta vincendo?
Il fatto che l’IS si trovi in difficoltà nella maggior parte del territorio iracheno e a Kobane non significa automaticamente che stia perdendo in termini assoluti, né che stiano vincendo gli Stati Uniti. La guerra all’IS non è infatti una guerra “tradizionale”: per esempio non ci sono due schieramenti, ma molti di più. La situazione in Siria da questo punto di vista è emblematica. Nelle ultime settimane, per esempio, il Fronte al Nusra – il gruppo che rappresenta al Qaida in Siria e che da mesi combatte, fra gli altri, anche contro lo Stato Islamico – ha fatto diverse conquiste importanti nella provincia di Idlib, che si trova nel nord della Siria al confine con la Turchia. Al Nusra ha conquistato territori che erano controllati dall’Esercito Libero Siriano, un gruppo considerato moderato dagli Stati Uniti e uno di quelli su cui l’amministrazione Obama fa affidamento in Siria. Tra le altre cose, al Nusra potrebbe conquistare presto il passaggio di confine di Bab al Hawa, il più importante per i ribelli moderati: una bruttissima notizia per gli Stati Uniti. Secondo alcuni analisti, al Nusra potrebbe stare beneficiando degli sforzi che gli Stati Uniti stanno compiendo a Kobane contro l’IS.

 

Gli Stati Uniti, tuttavia, conoscono il gruppo al Nusra: nonostante sia nemico dell’IS, non sembrano avere fatto mai niente per aiutarlo direttamente, anzi. Nella notte tra mercoledì 5 e giovedì 6 novembre aerei americani hanno compiuto diversi attacchi aerei nel nord della Siria: sono state colpite alcune postazioni di al Nusra e una postazione di Ahrar al Sham, un altro gruppo ribelle siriano. Come ha scritto su Twitter il bravo analista Charles Lister: «Per buona parte dell’opposizione siriana, se gli Stati Uniti attaccano l’IS fanno bene; se attaccano al Nusra non sono contenti; se attaccano Ahrar? Una cosa eccessiva..». Il punto è che una priorità dell’amministrazione Obama, a parte sconfiggere l’IS, è fermare potenziali attacchi terroristici in Europa e Stati Uniti, che il governo americano accusa essere pianificati da una cellula di al Nusra (il cosiddetto “gruppo Khorasan”). Questi attacchi potrebbero però avere effetti molto controproducenti sulla riuscita del piano di Obama per la Siria, che tra le altre cose prevede la collaborazione sul terreno con alcuni gruppi di ribelli moderati: dal momento in cui l’Esercito Libero Siriano non è più considerato una fazione sufficientemente forte per contribuire alla causa americana, gli Stati Uniti potrebbero volere rivolgersi altrove. Ma stando alla situazione attuale è difficile che ci riescano, vista l’opposizione crescente verso gli attacchi aerei delle ultime settimane.

Il paradosso di combattere sia l’IS che al Nusra in Siria l’ha descritto in modo chiaro il giornalista del Foglio Daniele Raineri su Twitter: «C’è una qualche differenza tra bombardare il Fronte al Nusra a Idlib e ad Aleppo, a parte distinguersi come miglior alleato di Assad?».