Il futuro di Venezia

E i suoi molti guai, raccontati da Filippomaria Pontani: per non parlare soltanto del passaggio delle grandi navi

di Filippomaria Pontani

VENICE, ITALY - NOVEMBER 19: A couple walks in a flooded Saint Mark's Square during high waters on November 19, 2013 in Venice, Italy. Venice will be affected by the high water for the next few days due to the passage of Cyclone Cleopatra that hit the Italian island of Sardinia causing devastating flooding, which has left at least 17 dead. (Photo by Marco Secchi/Getty Images)
VENICE, ITALY - NOVEMBER 19: A couple walks in a flooded Saint Mark's Square during high waters on November 19, 2013 in Venice, Italy. Venice will be affected by the high water for the next few days due to the passage of Cyclone Cleopatra that hit the Italian island of Sardinia causing devastating flooding, which has left at least 17 dead. (Photo by Marco Secchi/Getty Images)

La vicenda di cui vorrei parlare oggi è un po’ complessa, e si colloca al crocevia di due delle molte questioni irrisolte della nostra vita pubblica: il percorso sarà lungo, ma a mio avviso necessario per comprendere le dinamiche profonde sottese a quella che apparirebbe altrimenti una notiziola di cronaca, o una piccola bega locale.

La prima questione, una volta di più, è il declino di Venezia, del quale ho già lungamente discusso altre volte su queste pagine, e su cui non tornerò: lo spopolamento del centro storico, il cannibalismo turistico, la violenza al patrimonio artistico, le demenziali operazioni e speculazioni che minacciano la città. Tra le molte questioni aperte ne segnalo qui brevemente solo tre, a loro modo emblematiche dell’aria che tira.

Anzitutto, il famigerato passaggio delle Grandi Navi nel bacino di San Marco e nel Canale della Giudecca. Qualche settimana fa è stato annunciato in gran pompa e strombazzato dai mezzi d’informazione l’accordo raggiunto a Roma per stornare i mastodonti del mare dalle zone più sensibili della città. Ebbene, va precisato che il dispositivo raggiunto elimina con effetto immediato (dall’1 gennaio) i soli traghetti passeggeri e il 20% delle navi da crociera, ma rimanda il divieto totale di transito al novembre 2014 (siamo in Italia: i termini slitteranno di sicuro), limitandolo per di più alle navi superiori a 96mila tonnellate (la legge nazionale Clini-Passera parla di 40mila). Soprattutto, il deliberato romano prevede non già la creazione di un attracco alternativo per le grandi navi (si era parlato di un approdo a Marghera, ma già solo le reazioni ai primi timidi tentativi, e le dichiarazioni del ministro Lupi, fanno capire che non se ne farà nulla), bensì lo scavo in Laguna di un ulteriore canale, il cosiddetto canale Contorta-Sant’Angelo, destinato secondo tutte le previsioni a distruggere in modo definitivo e irreversibile quel che resta dell’equilibrio idrogeologico dell’ecosistema lagunare. In altre parole, il governo ha sposato interamente la linea dell’Autorità Portuale e del suo presidente Paolo Costa (già sindaco e ministro), senza tenere in alcun conto né le proposte dell’amministrazione comunale (che pure, incomprensibilmente, si dichiara soddisfatta) né le obiezioni di chi da tempo, come Lidia Fersuoch e Luigi d’Alpaos, denuncia i pericoli ambientali insiti nella strada che si vuole ora battere.

Tiriamoci su: Venezia è la capitale dell’arte contemporanea. Non ho competenza per ribadire le perplessità sulla Biennale d’arte appena conclusa: di certo, il profluvio spesso disordinato di oggetti (vessilli, placchette, arazzi, paños, detriti, modellini, ex-voto) raccolti in serie nel “Palazzo enciclopedico”, rinchiuso per di più in un allestimento opprimente che celava alla vista le strutture dell’Arsenale creando un’atmosfera letteralmente irrespirabile (d’estate si era al limite dell’inagibilità), rendeva non poco ardua l’esposizione curata da Massimiliano Gioni. Per fortuna c’erano alcuni padiglioni nazionali splendidi, come quello russo che rifletteva sul mito di Danae, quello greco che parlava ancor più concretamente di banconote, quello ungherese che associava in modo straniante obici e proiettili a suoni di pace, quello irlandese che proiettava vivaci immagini del Congo, quello coreano che meditava il vuoto, quello libanese che esplorava le dinamiche di chi sa dire un no. E perfino quello italiano, che dopo l’orgia di Sgarbi due anni fa torna a occuparsi, tramite l’arte, di problemi concreti (l’ambiente, la storia, l’amianto). Chi però volesse avere un’immagine realistica del mondo dell’arte contemporanea in Venezia, e del ruolo di Venezia nel mondo dell’arte, ha a disposizione da pochi mesi un documentario di prim’ordine, realizzato across the universe (da Basilea a Hong Kong, da Miami a Doha) “dall’interno” di quel particolarissimo mercato d’altro bordo: mi riferisco a La ruée vers l’art (di Marianne Lamour, Francia, 2013), in cui si prova a ricostruire le dinamiche che presiedono alle fiere e alle mostre, senza scadere nel moralismo ma senza rinunciare a delineare i rapporti che legano il business globale dell’arte alla più selvaggia speculazione finanziaria. E Venezia, come sempre, a fare da soprammobile di lusso, da vetrina agognata, da dama dal fascino fané.

Ma ci sono buone notizie: finalmente si fa qualcosa di innovativo per qualificare e diversificare l’offerta turistica a Venezia. È di poche settimane fa l’annuncio della realizzazione di un grande parco tematico sull’isola di Sacca San Biagio (un’isoletta abbandonata e già adibita a discarica, non lontano da Sacca Fisola, dunque a un tiro di schioppo dalla stazione dove ormeggiano indisturbate le Grandi Navi): per cura di una società specializzata in parchi di divertimento, la Zamperla s.p.a., e con l’assistenza preziosa di archeologi e biologi dell’università Ca’ Foscari, verranno ricostruiti sia l’ambiente lagunare ormai scomparso (con tanto di casoni lagunari e barene, tutto posticcio in mancanza del materiale vero sacrificato al progresso), sia episodi storici come la battaglia di Lepanto (con tanto di figuranti in costume e navi), sia un Carnevale perpetuo (per chi – non si sa mai – giunga a Venezia fuori stagione). La notevole pensata di questo Tivoli a tema storico, corredato di un museo virtuale in 3D e destinato forse ad attrarre folle di turisti desiderosi di vedere Venezia wie es eigentlich gewesen, è stata definita da Salvatore Settis la “pietra tombale” sul futuro di una città sempre più proiettata verso un avvenire che la accosti alle sue tante imitazioni all over the world, censite anni fa da Guido Moltedo nel prezioso libretto Welcome to Venice (Venezia 2007).

Così, con l’aiuto di Ca’ Foscari, arriviamo al secondo itinerario che m’interessa oggi, forse perfino meno battuto da un discorso pubblico nazionale attento ad altre urgenze e ad altre beghe: intendo appunto l’università e i primi esiti certi della riforma promossa dal ministro Gelmini nella passata legislatura. Salutata da alcuni con preoccupazione, da altri come una benvenuta svolta verso la responsabilizzazione degli Atenei e una più oculata gestione dei patrimoni, la legge 240/2010 mostra a distanza di tre anni dalla sua approvazione alcuni effetti inequivocabili, di cui nessuno sembra davvero intenzionato a farsi carico. È anche, ma non solo, una questione di danari.

Nella generale, progressiva e inesorabile riduzione delle risorse disponibili, la nuova ripartizione dei Punti Organico (in sostanza, le risorse disponibili a un ateneo per rimpiazzare i docenti che vanno in pensione), nominalmente tesa a premiare le università “virtuose” e a punire le “cicale”, ha avuto come effetto di avvantaggiare un manipolo di atenei ricchi e potenti, per lo più siti nel Nord del Paese (è sicuramente casuale che il primo sia la Scuola Sant’Anna già diretta dal ministro in carica), che hanno visto addirittura aumentare le proprie possibilità di relcutamento; altre università, invece, segnatamente gli atenei piccoli e medi del Centro-Sud, già provati da anni di gestione poco oculata, si trovano ora a subire sforbiciate che rendono sempre più disperata l’impresa del pareggio, o anche solo del mantenimento di un’offerta didattica dignitosa. Analisi accurate hanno mostrato come questa disparità di trattamento non discenda da giudizi di merito sulla qualità scientifica o sulla “meritocrazia”, bensì solo dalle scelte finanziarie dei singoli atenei, e in particolare dalla loro propensione ad alzare le tasse d’iscrizione.

Che il ministro Carrozza, benché avvertita sui pericoli della riforma, non abbia impresso una svolta al suo dicastero è un fatto abbastanza lampante: gli errori metodologici insiti nell’Agenzia Nazionale per la Valutazione delle università non sono stati corretti, anzi vi è il rischio che gli esiti della valutazione vengano usati per fini impropri come la sanzione dei singoli anziché delle strutture; non sono stati fatti passi avanti, a distanza di 4 anni dalla sua istituzione, verso una Anagrafe nazionale dei Professore e della Ricerca; nonostante gli annunci e i proclami in senso contrario, nulla è stato fatto per fermare la preoccupante diminuzione dei fondi per il diritto allo studio (che pure erano al centro del programma elettorale del partito di maggioranza relativa); fioriscono variegate forme di prestito agli studenti più bisognosi, in una gamma che va dal prestito d’onore puro e semplice al prestito garantito dall’ateneo (ma che succede a chi interrompe gli studi? a chi si laurea in ritardo? a chi non ottiene un posto ben remunerato dopo un anno dalla laurea?), e denuncia nel proprio stesso moltiplicarsi l’impotenza della mano pubblica e l’irrompere della finanza nella gestione degli Atenei; infine, i fondi stanziati per i Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale sono passati da oltre 100 milioni di euro a poco più di 38 (e non c’è bisogno di commento).

Tutti questi fattori sono in realtà effetti di longue durée dell’idea di fondo soggiacente alla riforma Gelmini, ovvero l’aziendalizzazione delle università, la loro trasformazione in enti sempre più avulsi da una missione di propagazione e approfondimento del sapere, e sempre più appesi a complicati meccanismi (e a ipertrofiche burocrazie) atti a garantire la loro stabilità finanziaria. In questo senso, il passo ideologico più rilevante riguarda senz’altro il cambiamento della struttura stessa della governance, segnatamente per quanto riguarda gli organi decisionali come il Senato Accademico e il Consiglio di Amministrazione: è stato infatti abbandonato, in buona sostanza, il modello di “gestione cooperativa” che prevedeva la diretta responsabilità dei docenti e dei dipendenti negli organismi di vertice. Dopo la definitiva abolizione delle Facoltà, infatti, e dopo la conseguente frammentazione degli organi decisionali in una serie di Dipartimenti più piccoli, talvolta raccogliticci, e comunque dotati di un piccolissimo margine di manovra sul bilancio e di un peso contrattuale pure assai esiguo (stante anche l’assoluta incertezza che perdura sulle misteriose entità definite “Scuole”), il Consiglio di Amministrazione, e ancor prima il Rettore che lo presiede, si sono visti riconoscere poteri decisionali sempre più ragguardevoli: sono loro a decidere su investimenti, diritto allo studio, edilizia, contabilità, piani strategici, partnerships ecc., mentre il Senato Accademico (l’organo eletto democraticamente dai docenti e dal Personale Tecnico Amministrativo) ha in tutte quelle materie ormai soltanto un ruolo consultivo.

Nei CdA del post-Gelmini almeno il 40% dei membri deve essere esterno all’università, e tutti i membri devono essere “scelti” o “designati” dal Rettore o dal Senato Accademico: l’intento è quello di inoculare nella gestione degli atenei una forte dose di esperienza gestionale maturata al di fuori del mondo accademico, e quello di garantire al Rettore la governabilità del Consiglio. Nell’ambito di tale indirizzo, le soluzioni sono state diverse: non poche università hanno previsto di avere 4 o 5 rappresentanti dei docenti (più uno del PTA) su 10 o 11, e hanno deliberato di sceglierli o tramite un’apposita commissione eletta dall’insieme dei docenti e dei dipendenti, oppure tramite elezioni generali all’interno di una rosa di nomi preventivamente scremati da un’apposita commissione. In altre parole, a Palermo come a Genova, a Pisa come a Torino, a costo di esporsi ai grotteschi (e peraltro inefficaci) ricorsi del ministro Profumo, ferocemente contrario a ogni forma di elezione per il CdA, si è cercato di compensare il deficit di democrazia insito nella norma, tramite artifici che garantissero una qualche forma di rappresentatività nell’organo in questione.

Ma questo non è avvenuto a Venezia, ed è qui che le nostre due strade, finalmente, s’intersecano. L’Università di Venezia “Ca’ Foscari” ha avviato un profondo rinnovamento sotto la guida del rettore Carlo Carraro (2009-2014), fratello dell’imprenditore Massimo (candidato dell’Unione alla presidenza del Veneto nel 2005) e noto economista affiliato all’ENI (è stato presidente del consiglio scientifico della Fondazione Enrico Mattei, ed è un esperto internazionalmente riconosciuto di cambiamenti climatici ed energia). Sulla superficie, si è assistito a massicci investimenti nella comunicazione, che hanno portato a vistose campagne pubblicitarie, alla produzione di spot e filmati, a una pervicace anglomania (l’acronimo “Ca’ Foscari Zattere” commutato in “Cultural Flow Zone”…), a un attivismo che ha avviato diverse partnerships internazionali e ha sommerso la città di eventi d’ogni genere, dal teatro al cinema all’arte (singolarmente frequenti le mostre d’arte russa, i contatti con gli emiri del Golfo, le lodi del patriarca Angelo Scola, e gli inviti a Paolo Scaroni, Svetlana Medvedeva, Alessandro Profumo, consoli kazaki…), nonché all’impianto di alcune tradizioni di gusto forse discutibile (penso per esempio alla sostituzione della discussione di laurea triennale con la proclamazione di massa in una cerimonia all’americana in Piazza San Marco, con tanto di lancio dei cappellini in aria).

Più capillarmente, Carraro ha lavorato a una meticolosa ristrutturazione dell’organigramma di Ca’ Foscari, cambiando d’imperio uffici e competenze, facendosi interprete e talora perfino profeta dei dettati ministeriali, scrivendo e approvando in quattro e quattr’otto Statuto e Regolamenti, e insomma imponendo una gestione decisa e decisionista che, al netto di rare proteste e di prevedibili malcontenti (i periodi di lezione sempre più compressi; il numero sempre più esiguo di appelli d’esame; una perenne instabilità degli uffici amministrativi; un rapporto con i dipendenti talora aspro), non ha mancato di dare buoni frutti: un aumento delle iscrizioni, lieve ma costante; un aumento del fondo premiale ministeriale, che ha consentito di mantenere i bilanci sani; una maggiore visibilità dell’Ateneo sui media; riconoscimenti nell’ambito della sostenibilità. Tutti traguardi sciorinati con compiacimento dall’ambizioso rettore nel suo blog, che da luogo di discussione (incautamente frequentato da qualche scettico eterodosso, per lo più prontamente zittito con toni scortesi) è diventato rapidamente un dazebao dell’università autoproclamatasi (forse con qualche immodestia) “tra i migliori Atenei d’Europa”.

Ora, nella riorganizzazione del CdA, Ca’ Foscari ha seguito i dettami Gelmini nel senso più restrittivo possibile (chiedo ai lettori un po’ di pazienza: il détour burocratico è necessario): su 9 membri, un solo rappresentante dei docenti e uno del Personale Tecnico Amministrativo. Accade in altre parole che un Comitato di selezione, interamente nominato dal Rettore, nomina i 4 membri esterni e propone al Senato Accademico le candidature tra cui scegliere i 2 interni; ne consegue che il Magnifico ha il potere di nominare, direttamente o indirettamente, l’insieme dei membri del CdA con la sola eccezione dei due rappresentanti eletti dagli studenti. L’anno scorso, il rappresentante dei docenti è stato individuato – nonostante qualche fronda nel Senato, che ha fatto passare la nomina per il rotto della cuffia – nell’ex prorettore al Bilancio, ovviamente uomo di fiducia di Carraro. Insomma, un uomo solo al comando, per il bene di tutti.

Arriviamo al dunque. Da anni Ca’ Foscari ha manifestato l’intenzione di riorganizzare i Dipartimenti di lingue (che rappresentano notoriamente uno dei punti di forza dell’università, attirando studenti da ogni parte d’Italia) tramite la creazione di un Polo linguistico e di una biblioteca centralizzata che soppiantino le attuali cinque sedi in cui sono dispersi i colleghi di studi eurasiatici, di studi dell’Asia orientale, di studi europei e postcoloniali, di studi ibero-americani e slavi, di scienze del linguaggio. L’accorpamento, secondo la dirigenza, porterebbe non solo vantaggi per studenti e docenti, ma anche notevoli economie, abolendo d’emblée le spese d’affitto per una delle cinque sedi, ed evitando le cospicue spese necessarie per riattare e mantenere edifici storici non più adeguati alla funzione di moderne sedi universitarie.

Il disegno presenta prima facie aspetti condivisibili, a patto ovviamente che l’abbandono delle vecchie sedi e soprattutto il progetto della nuova vengano effettuati in modo condiviso e trasparente, come accadde anni fa per la creazione del Polo umanistico e della relativa biblioteca, nei pressi di Campo Santa Margherita. In realtà, in modo alquanto inopinato, nell’estate 2012 il Consiglio di Amministrazione imprime una brusca accelerazione su questa materia, e in breve tempo palesa l’intenzione di acquisire uno specifico immobile in Venezia, denominato “Ca’ Sagredo” e apparentemente idoneo all’accentramento di docenti e patrimoni librari: a fine 2012 vengono richieste e ottenute le autorizzazioni dagli uffici competenti (Ministero dell’Economia e dei Beni Culturali), e a metà 2013 tutto sembra pronto all’affare.

In merito alle modalità dell’acquisizione, ai lavori necessari e alla pianificazione logistica dell’operazione, si riferisce in CdA ma non si discute in alcuna altra sede pubblica (nemmeno nel Senato Accademico), talché molti docenti, studenti e dipendenti (tutti coloro che non sono adusi a leggere i verbali del CdA, peraltro messi online a diverse settimane di distanza dalle riunioni) rimangono semplicemente all’oscuro. Nella riunione del CdA del 2 luglio 2013 viene finalmente presa la decisione di procedere all’acquisizione dell’agognato edificio (un brutto palazzone del 1957 già di proprietà dell’ENEL, e ora in mano al Fondo Immobiliare “Risparmio Immobiliare Uno Energia”, amministrato dal gruppo altoatesino PensPlan Invest) tramite permuta con ben tre edifici attualmente di proprietà di Ca’ Foscari, uno moderno sito alle Zattere (Palazzo Cosulich) e due palazzi cinquecenteschi di altissimo valore storico e artistico (Ca’ Bembo e Ca’ Cappello), tutti e tre frequentati per decenni dai docenti e studenti di lingue a Venezia.

Dinanzi al profilarsi di una simile operazione, in città inizia a montare qualche inquietudine: gli studenti, in un’animata assemblea in cui ricevono il sostegno appassionato dello scrittore Tiziano Scarpa, s’interrogano circa l’opportunità di abbandonare palazzi storici nelle mani di un fondo immobiliare privato; un comitato nato ad hoc (“Collettivo per la Difesa dei beni artistici di Ca’ Foscari”) pone al rettore diverse domande circa la correttezza e la trasparenza dell’operazione, e circa i costi e i tempi dei lavori di restauro necessari per rendere fruibile Ca’ Sagredo; diversi docenti, non solo di Lingue, tornano a frequentare il blog del Rettore per chiedere lumi su quanto sta avvenendo e per invocare a gran voce la sospensione della vendita e almeno un’assemblea generale dedicata alla questione (e si beccano, invece di risposte, rimbrotti ed insulti, oppure lapidari e minacciosi comunicati ufficiali). Nel frattempo iniziano a comparire articoli sui giornali locali e nazionali (raccolti, come spesso accade, sul sito di Italia Nostra), e – come per magia – dai verbali online della seduta del CdA del 2 luglio scompaiono proprio le 10 pagine relative alla permuta degli edifici; parte (per opera di Beppe Caccia) un’interpellanza in Consiglio comunale, motivata dalla preoccupazione aggiuntiva che il cortile di uno dei palazzi in vendita è il luogo di ricreazione per i bambini di una scuola elementare.

Per sovrammercato, il CdA del 15 novembre viene interrotto dalla contestazione di un gruppo di studenti, uno dei quali finisce in ospedale e denuncia, anche sulla scorta di un controverso filmato, di essere stato aggredito fisicamente al collo dal Magnifico Rettore; quest’ultimo per parte sua nega, promette querele, e chiede e incassa la solidarietà dei membri del CdA e perfino di chi non era affatto presente al tafferuglio (alcuni direttori di dipartimento; il consiglio regionale del Veneto). Qualcuno ricorda, a proposito di violenza, l’increscioso episodio occorso durante l’inaugurazione dell’Anno Accademico 2010, quando, per iniziativa del Rettore che guidava la cerimonia con fare da consumato anchorman, una studentessa intenta a leggere un breve comunicato di protesta fu zittita e portata via di peso da agenti della Digos dinanzi a un’attonita platea.

E ancora oggi siamo al muro contro muro: raccolte di firme contro il Rettore, grandi manovre sui giornali, frettolose approvazioni di Codici Etici dalle clausole minatorie (se l’articolo che state leggendo verrà giudicato “denigratorio” nei confronti di Ca’ Foscari, io stesso rischierò una sanzione disciplinare). Nel merito, ancora nessuna risposta sulla dinamica dell’operazione immobiliare, e solo l’astratto proclama secondo cui tutto è regolare e luminoso, bisogna fidarsi dei governanti, bisogna rispettare la segretezza della trattativa, e solo per questa via si tutelano gli interessi della comunità.

Una prima morale che si può trarre da questa vicenda sta nell’evidente constatazione che ridurre lo spazio di democrazia interna, e favorire una deriva verticistica, può facilmente condurre all’esplosione di conflitti che potrebbero più saggiamente essere gestiti tramite il dialogo, il confronto democratico e una più pacata condivisione delle scelte. Ecco dunque uno dei tanti effetti della legge Gelmini, e in particolare della sua applicazione troppo rigida.

Ma l’enjeu, proprio perché siamo a Venezia, è in questo caso più ampio, e ha un risvolto più tecnico e un risvolto politico.

Sul piano tecnico, sembra che permutare edifici storici con un edificio moderno cozzi contro una precisa disposizione del Codice dei beni culturali (art. 58 del DL 22.1.2004 n.42), che consente la permuta solo qualora “dalla permuta stessa derivi un incremento del patrimonio culturale nazionale ovvero l’arricchimento delle pubbliche raccolte”: il che – stati i valori degli immobili in questione – non è evidentemente il caso presente. Inoltre, risulta che l’autorizzazione concessa dalla Soprintendenza nel tardo 2012, fosse appunto per un’alienazione, non per una permuta. È forse per questo che le pagine sulla permuta sono state strappate dai verbali di luglio, ed è forse per questo che i fumosi comunicati ufficiali parlano ora di “pagamento attraverso la cessione”; ma anche un Simplicio del diritto potrebbe domandarsi se sia possibile “cedere” degli immobili (e soprattutto degli immobili di tal pregio) direttamente a un singolo compratore senza un’asta di pubblica evidenza. Quando nel 2004-2005 Ca’ Foscari alienò altri palazzi per creare il Polo umanistico, giunsero varie offerte dal cui confronto l’Ateneo riuscì a spuntare un prezzo talora considerevolmente superiore a quello stabilito dall’Agenzia del Territorio; ora invece s’intende alienare palazzi storici (certo bisognosi di restauro, ma dotati di un valore aggiunto inestimabile) al loro valore catastale, ovvero a un prezzo per metro quadro sostanzialmente analogo al prezzo per metro quadro del palazzone del 1957. Inoltre, sempre sul piano tecnico, da una serie di riscontri e perizie indipendenti pare che l’edificio moderno da acquisire sia inadeguato alla bisogna, in quanto sensibilmente più piccolo della somma delle sedi che dovrebbe rimpiazzare, e in quanto non adatto a garantire quella biblioteca a scaffale aperto (e dotata di un congruo numero di posti: gli studenti di lingue sono tanti, a Venezia) che viene viceversa promessa dalle autorità. Come stanno davvero le cose?

Ma il punto più rilevante è quello politico, ed è per questo che ho condotto il discorso fin qui: anche ammesso che sul piano formale sia tutto a posto, e anche lasciando per un attimo da parte la questione (a mio giudizio grave) della mancata condivisione delle scelte, viene da chiedersi quale idea di università sia sottesa a questa operazione immobiliare. Senz’altro, la nuova sede – si dice – sarà più efficiente e moderna rispetto alla somma delle vecchie sedi storiche, costose e démodées. In realtà qui si vogliono alienare dei palazzi storici a un fondo di investimento che opererà senz’altro secondo le proprie logiche di profitto, le quali ricadranno fatalmente nell’ambito dello sfruttamento turistico (un altro albergo? appartamenti di lusso?). Il “Risparmio Immobiliare Uno Energia” è gestito da PensPlan Invest, società balzata agli onori delle cronache insieme al suo advisor “Ca’ Sagredo Real Estate” per sospette turbative (non penalmente rilevanti, ma ebbe a occuparsene anche una puntata di “Report”) nella rivalutazione gonfiata di palazzi ottenuti dalla svendita di patrimoni pubblici: tra questi, alcuni edifici già in mano alla Compagnia Italiana del Turismo, e la nostra stessa Ca’ Sagredo veneziana (l’immobile del 1957), il cui valore nel 2007, in seguito a due passaggi di mano, aumentò in pochi mesi del 30%. Forse è legittimo qualche dubbio sull’opportunità di vendere per trattativa privata i palazzi di Venezia proprio a questa ditta?

I precedenti, peraltro, non mancano: gli immobili storici alienati nel 2005 da Ca’ Foscari (tramite più trasparenti aste) sono finiti sotto i riflettori tra il 2010 e il 2011, l’uno (Ca’ Garzoni e Moro, già sede di Lingue) perché adocchiato da Madonna in cerca di un buen retiro veneziano, l’altro (Ca’ Nani Mocenigo, già sede di Italianistica) perché fu il nido d’amore di Brad Pitt e Angelina Jolie in occasione di una loro memorabile trasferta lagunare. Spazi che erano un tempo di tutti, e che brulicavano di studi e di attività capaci di dare loro un senso e una vita vera nel mondo d’oggi, sono diventati muti oggetti di speculazione, tendenzialmente vuoti e pronti a illuminarsi au bon moment della luce effimera e violenta del jet-set.

Viene da chiedersi, senza alcun moralismo, se le considerazioni di natura strettamente economica ed efficientistica debbano avere necessariamente il sopravvento sulla tutela di alcuni spazi importanti per la comunità di un agglomerato come Venezia, sempre più musealizzato e sempre più spoglio di autonome attività produttive. Viene da chiedersi se università e soprintendenza non potessero trovare un accordo di altro tipo per garantire un futuro diverso, e pubblico, agli ennesimi immobili storici destinati a diventare oggetto di speculazione turistica o immobiliare. Viene da chiedersi se la resistenza di docenti, studenti e dipendenti, che formulano dubbi, domande e obiezioni a un potere sempre più assertivo (lo stesso avviene da anni con gli studenti di Ca’ Tron, che lottano contro la vendita di una prestigiosa sede dello IUAV sul Canal Grande, e l’hanno trasformata in un centro importante di dibattiti e incontri, sia davvero d’intralcio alle magnifiche sorti del progresso, oppure – giusta le idee di Salvatore Settis, premiato a Ca’ Foscari nel 2012 – un indispensabile sale della democrazia.

foto: Marco Secchi/Getty Images