Ieri 2 dicembre 2010 la conferenza dei capigruppo in Senato ha deciso di non calendarizzare la discussione della riforma dell’Università prima del fatidico giorno 14. La decisione, comunque la si pensi, ha degli aspetti positivi: impedisce che un provvedimento così importante venga approvato a tappe forzate da una maggioranza in bilico e ormai largamente screditata; previene l’inevitabile strumentalizzazione del provvedimento stesso in sede di propaganda filogovernativa o sub-elettorale (si tratterebbe invero di uno dei pochi disegni di legge governativi importanti giunti all’approvazione negli ultimi due anni); soprattutto, sottrae una materia così delicata all’inaccettabile ricatto del ministro, subito ripreso da alcuni fedelissimi rettori (“o si approva il testo così com’è o si bloccano i finanziamenti, i concorsi e tutto il sistema”).
È un fatto che la situazione politica confusa e lacerata ha condizionato l’iter parlamentare del ddl ben più pesantemente delle discussioni di merito. Una volta di più, l’Università è diventata ostaggio (o, a seconda dei punti di vista, merce di scambio) delle lotte tra fazioni, una volta di più la dialettica si è ridotta a slogan, a comparsate (non tutte opportunistiche, va detto) dei politici sui tetti, e così la dinamica parlamentare ha finito per mortificare un dibattito che negli atenei, al contrario, si è sviluppato in modo consapevole e costruttivo.
Chi sostiene oggi che i ricercatori e gli studenti in agitazione siano capaci solo di dire dei “niet”, o conducano battaglie corporative, non sa cosa dice, per lo più in quanto non ha partecipato alle assemblee e ai gruppi di discussione che da mesi hanno prodotto e divulgato informazione sulla riforma, mobilitandosi e mobilitando non in virtù d’ideologia ma sulla base di argomenti concreti (io ho esperienza diretta di Venezia, Padova, Pisa, e indiretta di altre sedi: e per questo osservo che stavolta non siamo dinanzi alla consueta protesta stagionale).
Sintetizzare il ddl è difficile perché esso si articola in una tale serie di norme e regolamenti (in larga parte ancora in mente Dei) che, anche ove uscisse tal quale dalle secche del Senato, la sua stessa applicabilità verrebbe meno senza un ulteriore lavoro ministeriale e governativo (tutto romano) di molti mesi – il che, nella situazione politica corrente, pare quasi un’utopia. Anche per questo, lanciamoci nel pericoloso esercizio di esaminare soltanto i punti salienti di questa riforma, i criteri ispiratori che, se il testo dovesse essere approvato in una qualunque forma, difficilmente verrebbero scalfiti.
Cominciamo dagli elementi di sicura novità, con brevi note di commento.
1. Si vuole sottrarre il governo dell’Università a chi vi lavora, introducendo nella cosiddetta governance ampie rappresentanze (nominate dal ministro) delle imprese e di soggetti privati (un 40% del CdA, ma un 40% dal peso specifico alto, poiché si tratta di soggetti economicamente forti), e accentrando molti poteri nelle mani del rettore (dal mandato unico di 6 anni o rinnovabile per 4+4), della nuova figura del “direttore generale” (dai poteri ancora non chiarissimi) e del Consiglio di Amministrazione (a detrimento dei poteri del Senato Accademico, composto per ora di soli professori).
Questa scelta ha almeno tre obiettivi dichiarati:
– quello di “aprire” l’Università al mondo produttivo e del territorio
– quello di accentuare la gestione “manageriale” degli atenei
– quello di togliere potere ai “baroni” che tanto male hanno fatto al sistema negli anni passati.
Sorvoliamo sul fattore ideologico che pervade tutta questa riforma, ovvero la retorica della disistima e del disprezzo nei confronti della classe docente – un giudizio certo non privo di qualche fondamento alla luce delle passate malefatte, ma palesemente gravato da èmpiti punitivi contro l’unica schiera professionale (oltre alla magistratura) riottosa al bonapartismo imperante; un giudizio che d’altronde, portato alle estreme conseguenze, metterebbe in forse la tenuta complessiva del sistema.
Sorvolo anche sugli aspetti più smaccatamente demagogici di questa retorica, come l’obbligo di insegnamento e annessi per 350 ore (che in realtà è già in vigore) e di lavoro per 1500 ore (si quantificheranno le ore di ricerca? si legheranno i docenti alla sedia? si metteranno delle microspie nei computer? si farà loro timbrare il cartellino?): non credo si possa nutrire qualche fiducia nell’efficacia di simili norme per combattere l’assenteismo (che è viceversa un problema vero), o meglio ancora per contrastare i doppi e tripli lavori dei docenti più facoltosi; né so chi possa accogliere queste norme con sollievo, quando è noto che sulle spalle dei docenti (di quelli che lavorano, cioè) è piombato da anni un carico di obblighi burocratici e amministrativi che le sempre più esili segreterie non possono più evadere (con quale beneficio delle strutture, degli studenti, e dei docenti stessi, è facile immaginare): ma di questo nessuno parla, nemmeno la riforma Gelmini.
“L’Università come impresa”: questa grande pensata è così nuova da essere (alla lettera) il titolo di un libro di Gino Martinoli del 1967; chi vada a leggere quelle pagine potrà vedere come perfino una trattazione così orientata (dove si loda il numero chiuso e si parla ripetutamente in termini di “produttività”) non smetta di insistere sul fatto che l’Università non deve essere “professionalizzante”, ma deve rappresentare il luogo della formazione, non una “knowledge factory” (si veda l’analisi della caratura post-fordista di questa deriva in G. Roggero, Intelligenze fuggitive, Roma 2005), non un'”IKEA di Università” (si veda l’omonimo libro di Maurizio Ferraris, Milano 2001), ma un luogo dove il sapere si crei tramite la partecipazione attiva alla ricerca pura. Chi colga in questo mio dire il fumus dell’ideologia rétro potrebbe utilmente considerare – per andare sul concreto e sullo storicamente fondato – se convenga offrire a un’agenzia turistica dei corsi universitari perché formi delle guide a questa o quell’area specifica della città, oppure anche alla GEOX o alla Luxottica dei laboratori universitari per il training di operai specializzati nella produzione di scarpe o di occhiali (la risposta può essere positiva, beninteso: siamo in democrazia).
Ma poi parliamoci chiaro: dov’è da noi il sistema produttivo che freme per investire nell’Università? Come funzioneranno le Fondazioni che dovrebbero gestire gli atenei (i quali abbracciano un sacco di realtà apparentemente “improduttive” come Lettere o Sociologia o perfino Teoria dei numeri), quando non si riesce nemmeno a metter su una Fondazione per il primo sito archeologico d’Italia, e si fatica a trovare gli sponsor per il restauro del Colosseo? Quale industria, in un panorama di assoluto disinteresse degli imprenditori per l’innovazione, e – si badi bene – senza che sia proposta la de-fiscalizzazione degli investimenti in ricerca (come avviene in America), quale industria vorrà veramente rischiare i propri danari nella formazione dei giovani, ove non si tratti, come detto, di finanziamenti mirati a singoli profili lavorativi (peraltro spesso destinati a obsolescere in tempi relativamente ristretti)?
Cosa accadrà nel Mezzogiorno d’Italia (e non solo lì, purtroppo) dove parte del sistema imprenditoriale è affetta da gravi patologie e collusioni? Cosa accadrà di diverso rispetto a quello che abbiamo già avuto modo di sperimentare nelle ASL, i cui consigli di amministrazione sono stati così profumatamente pagati e corrotti? Chi tratterrà i privati “di comprovata esperienza” dall’antica prassi del privatizzare gli utili e socializzare le perdite, come è avvenuto tante altre volte in Italia? Si leggano in proposito le cupe pagine di G. Roggero, La produzione del sapere vivo, Verona 2009.