• Italia
  • Mercoledì 9 ottobre 2013

Nei panni di Napolitano

Adriano Sofri immagina i pensieri, ieri, dell'uomo che non gli diede la grazia

Adriano Sofri su Repubblica commenta il messaggio inviato da Giorgio Napolitano al Parlamento riguardo la situazione delle carceri. Alla fine dell’articolo Sofri allude alle discussioni che ci furono a proposito della grazia che Napolitano avrebbe potuto dargli quando scontava una condanna a 22 anni, relativa all’omicidio del commissario Luigi Calabresi avvenuto nel 1972.

Per una volta, mi metterò nei panni di Giorgio Napolitano. Il quale sapeva, come me e come voi, che il suo messaggio sulle carceri gli sarebbe stato ritorto contro come un vile espediente per trarre dalle peste Silvio Berlusconi. Che ci sono esponenti politici e uomini di spettacolo che sulla rendita di insinuazioni come queste ingrassano. Che la corruzione di comportamenti e lo scandalo di sentimenti di un ventennio sfinito hanno esacerbato l’opinione.

Insomma: che si stava cacciando in un guaio grosso. E allora, perché l’ha fatto? Azzardo una risposta. Se fossi Napolitano, sarei sconvolto, come me, dallo stato delle galere. Mi ricorderei di essere andato – lui, non io – il giorno di Natale del 2005, a una “marcia per l’amnistia” indetta dai radicali. Otto anni fa: Napolitano aveva appena ottant’anni, Berlusconi stava benone, era capo del governo. A quella Marcia di Natale, Napolitano disse al cronista di Radio radicale che per lui, col suo passato, non era così insolito partecipare a un corteo, sebbene fosse diventato più raro. Ma a questa, spiegò, bisognava esserci. E mi auguro che la politica affronti il problema, aggiunse, “senza lasciar prevalere pregiudiziali, o timori non ben chiari…”.

Continuo a immaginare che cosa dev’essersi detto licenziando il suo messaggio. Non se la prenderà, io sono interdetto in perpetuo. Si sarà ricordato che nel giugno 2011 partecipò a un convegno promosso da Pannella e ospitato dal Senato sulle carceri. Berlusconi stava benino, era capo del governo. Lui, il presidente, disse che era una “questione di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile”. Disse che la questione della giustizia e specialmente delle carceri era giunta “a un punto critico insostenibile, sotto il profilo della giustizia ritardata e negata, o deviata da conflitti fatali tra politica e magistratura, e sotto il profilo dei principi costituzionali e dei diritti umani negati per le persone ristrette in carcere”. Citò “i più clamorosi fenomeni degenerativi – in primo luogo delle condizioni delle carceri e dei detenuti – e anche le cause di un vero e proprio imbarbarimento”. Parlò di “una realtà che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quotidiana – fino all’impulso a togliersi la vita – di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo, per non parlare dell’estremo orrore dei residui ospedali psichiatrici giudiziari, inconcepibile in qualsiasi paese appena appena civile – che solo recenti coraggiose iniziative stanno finalmente mettendo in mora”. (Macché: sono sempre lì, questo lo aggiungo io). Continuò: “Evidente è l’abisso che separa la realtà carceraria di oggi dal dettato costituzionale… È una realtà non giustificabile in nome della sicurezza, che ne viene più insidiata che garantita, e dalla quale non si può distogliere lo sguardo…”. E concluse: “Non dovremmo tutti essere capaci di uno scatto, di una svolta, non foss’altro per istinto di sopravvivenza nazionale? Ci si rifletta seriamente, e presto, da ogni parte”.

(continua a leggere sul sito di Repubblica)