Chris Kyle è stato il migliore cecchino della storia militare degli Stati Uniti: prese parte a quattro diverse fasi della guerra in Iraq, sopravvivendo a diversi attacchi nemici e vedendo morire molti suoi compagni. Quando tornò a casa soffrì di disturbo post-traumatico da stress (PTSD), una patologia che colpisce molti veterani di guerra: riuscì a uscirne, e nel 2012 raccontò tutta la sua storia in un’autobiografia (American Sniper) che ha venduto più di un milione di copie e sarà il soggetto di un film di Steven Spielberg (aggiornamento: il film è stato poi realizzato da Clint Eastwood). Un altro ex militare impiegato in Iraq, Eddie Ray Routh, soffrì degli stessi disturbi di Kyle ma non riuscì a superarli. Le loro due storie si incrociarono il 2 febbraio scorso: le ha raccontate in un lungo articolo sul settimanale New Yorker Nicholas Schmidle (già noto per un pezzo molto apprezzato sulla cattura di Bin Laden).
È un’impressionante storia che aveva ottenuto molta attenzione negli Stati Uniti al momento del suo epilogo e che tocca molte questioni attuali e complesse, dal disturbo post-traumatico da stress dei reduci di guerra, alle difficoltà del loro reinserimento – tema delicatissimo dai tempi del Vietnam (e di Rambo) – al possesso delle armi, alla violenza nella società americana. Ed è anche una storia tanto drammatica e romanzesca da sembrare un romanzo, o un film.
Il diavolo di Ramadi
Durante la guerra in Iraq Chris Kyle era arruolato nel Team 3 dei Navy SEAL, il corpo speciale della marina militare americana noto per aver scovato e ucciso Osama Bin Laden nel 2011 (fu il Team 6 a portare a termine quell’operazione). Per i combattenti iracheni Chris Kyle era uno dei nemici più temuti e odiati: lo chiamavano al-Shaitan Ramadi (“il diavolo di Ramadi”), dal nome della città – poco distante da Baghdad – dove Kyle trascorse gran parte della sua permanenza in Iraq. Nel corso delle diverse campagne militari a cui prese parte, Kyle uccise in totale 160 nemici, e oggi viene riconosciuto come il migliore cecchino della storia degli Stati Uniti. I ribelli iracheni misero su di lui una taglia di 80 mila dollari.
Il primo bersaglio centrato da Kyle in guerra fu una donna che avanzava verso uno degli avamposti a Nasiriyya, a marzo del 2003, tenendo un bambino per mano e una granata nell’altra mano. A una giornalista del Time che nel 2012 gli chiese se si fosse mai pentito anche di uno soltanto dei suoi 160 colpi mortali, Kyle rispose di no, che ha sempre sparato per difendere i suoi compagni da un pericolo.
I colleghi di Kyle ricordano spesso uno dei suoi centri tecnicamente più difficili, quando uccise da una distanza di quasi due chilometri un nemico che imbracciava un lanciarazzi. Un’altra volta uccise con un solo proiettile due ribelli che andavano sullo stesso motorino. Sul casco e sul giubbotto di tutti i soldati del plotone di Kyle era disegnato lo stemma del Punitore (l’eroe-giustiziere Marvel che uccide i criminali senza rispettare nessuna legge). Kyle aveva ulteriormente personalizzato la sua divisa: aveva tagliato via le maniche della maglietta in modo da mostrare la croce rossa da cavaliere templare tatuata sul suo braccio («perché tutti sappiano che sono un cristiano», ha scritto nella sua autobiografia).
I racconti di guerra di Kyle
In guerra Kyle visse molti momenti traumatici, e il racconto di quegli eventi è una delle parti più lunghe e dettagliate della sua autobiografia. Un giorno, poco tempo dopo essere arrivato in Iraq, finì sotto il fuoco nemico insieme a due compagni: un proiettile colpì il mitragliatore M60 impugnato da uno dei tre, Ryan Job, che perse la vista a causa delle schegge di metallo che gli finirono in faccia (Job morì tre anni dopo, a ventisette anni, a causa di complicazioni seguite a un intervento chirurgico di ricostruzione facciale).
Kyle riuscì a fuggire, tornò con i rinforzi ma tutti furono di nuovo costretti a ripiegare in un edificio sotto i proiettili nemici. Dopo ore di combattimento uno di loro – Marc Lee, la sentinella del plotone, ventotto anni – salì una rampa di scale per controllare l’area: mentre riferiva ai compagni, un proiettile nemico attraversò la finestra e lo centrò in pieno volto uccidendolo all’istante.
In quei primi giorni a Ramadi altri tre marines erano stati coinvolti in un incidente mentre sorvegliavano l’area dal tetto di un edificio. Una granata li aveva colti di sorpresa ma uno dei tre – il sottufficiale Michael Monsoor, molto amico di Kyle – era riuscito a gettarcisi sopra pochi istanti prima che esplodesse: il suo corpo fu dilaniato dall’esplosione ma fece da scudo per gli altri due, che sopravvissero.
Molto scosso dalle morti dei compagni, Kyle sfruttò una licenza per tornare dalla moglie Taya e dai figli, in California: alla più piccola era stata appena diagnosticata una forma di leucemia (la diagnosi fu poi smentita da altri accertamenti). Una volta a casa Kyle cominciò a dormire sempre meno, manifestando i primi sintomi di una patologia molto diffusa tra i soldati che sopravvivono a eventi particolarmente drammatici e cruenti: il disturbo post-traumatico da stress.
Il disturbo post-traumatico da stress (PTSD)
Scrive Schmidle: «il passaggio dalle aree di guerra e dagli MRE [meal ready-to-eat, le razioni dei militari] ai parcheggi e ai fast food può scombussolare anche il più sano di mente dei veterani». Non riuscire a dormire è un sintomo tipico di diversi disturbi psichici: nel caso del disturbo post-traumatico da stress complica ancora di più il quadro clinico del malato. Secondo lo psichiatra Jonathan Shay – ex impiegato a Boston in una struttura del Dipartimento degli Affari dei Veterani (il dipartimento federale che si occupa dell’assistenza dei reduci di guerra) – il sonno è un “carburante” indispensabile per i lobi frontali, la parte del cervello che regola tra le altre cose la capacità di distinguere il presente dal prima e dal poi: «non dormire è come vivere in un eterno presente».
Molti pazienti affetti da PTSD tendono ad adottare misure in difesa della loro vita anche in situazioni in cui la loro vita non è più in pericolo. La moglie di Kyle, Taya, racconta che Kyle si teneva sempre lontano dai mucchi di spazzatura per strada, che a Fallujah e a Ramadi i ribelli utilizzavano per nascondere le bombe. Un’altra volta Taya fece scattare per sbaglio l’allarme di casa e Kyle corse a rifugiarsi sotto un tavolo.
Un’altra cosa che Taya ha raccontato a Schmidle – premettendo di non aver comunque mai temuto veramente per la propria vita – è quello che a volte succedeva a Kyle nei momenti in cui riusciva a dormire. Una notte, nel sonno, le afferrò con forza il braccio con tutte e due le mani: preoccupata che potesse spezzarglielo, Taya cominciò a chiamarlo ripetutamente finché Kyle allentò la presa e si svegliò.
L’addestramento molto duro a cui i militari dei corpi speciali sono sottoposti – e in particolare la simulazione dell’esperienza del finire prigionieri del nemico, obbligatoria nell’addestramento dei Navy SEAL – li rende più resistenti anche agli stessi sintomi del PTSD. Secondo Shay il quadro clinico di Kyle era ancora più specifico a causa del suo ruolo in guerra, che lo esponeva a una «terribile intimità» con il nemico, ovvero un tipo di esperienza che altri marine non vivono: oltre che “fare centro” il cecchino ha sempre il compito di mantenere l’occhio sul mirino telescopico del fucile per confermare che il bersaglio a terra sia stato colpito a morte, e deve riportare immediatamente tutti i dettagli dell’operazione al suo maggiore (dalla dinamica del tiro all’abbigliamento del nemico colpito). Non è come uccidere da un aeroplano, dice Shay, e neppure come sparare in trincea.
Nel 2009 i sintomi del PTSD aumentarono e Kyle iniziò a bere. Nonostante desiderasse tornare in Iraq, assecondò la volontà di sua moglie e chiese e ottenne il congedo definitivo. Si trasferirono nella città natale di Kyle, Midlothian (Texas, poco a sud di Dallas), dove Kyle fondò la Craft International, una società che vende servizi di difesa personale ai privati e propone corsi di addestramento personalizzato per ex veterani o agenti in attività.