Haiti due anni dopo
Non è cambiato molto, e la ricostruzione è ancora in alto mare: le foto
Il 12 gennaio 2010 Haiti è stata colpita da un terremoto di magnitudo 7, che ha devastato un paese già poverissimo e segnato da instabilità politica e scontri per il potere. Due anni dopo non si sono fatti grandi progressi, anzi: al terremoto ha fatto seguito una terribile epidemia di colera, il nuovo presidente Michel Martelly ci ha messo mesi a formare un governo e a essere riconosciuto dal parlamento, molti profughi sono stati respinti al confine con la Repubblica Dominicana o rimpatriati dai campi in cui erano ospitati. E la comunità internazionale comincia a mostrare insofferenza per l’incapacità dimostrata dalle istituzioni haitiane nella gestione degli aiuti.
Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, circa la metà dei detriti causati dal terremoto di due anni fa non è ancora stata rimossa, solo uno dei dieci progetti più importanti di ricostruzione è partito e solo la metà dei fondi stanziati dalla comunità internazionale per la ripresa del paese, circa 5 miliardi e mezzo di dollari, è stata utilizzata.
Il Wall Street Journal riassume, a due anni dal terremoto, la situazione di Haiti, mentre ancora mezzo milione di persone vive nelle tendopoli fuori la capitale Port-au-Prince. Le difficoltà incontrate dal nuovo presidente al suo insediamento hanno ritardato i programmi agricoli di trasferimento dei rifugiati e, di conseguenza, la generale ripresa autonoma del paese.
I grossi donatori come gli Stati Uniti hanno iniziato a perdere la pazienza: «Non è realistico aspettarsi che la comunità internazionale continui a dirigere fondi di assistenza verso questo paese all’infinito, come ha fatto per così tanti anni», spiega l’ambasciatore statunitense Kenneth Merten. E aggiunge: «Le persone qui devono imparare a reggersi in piedi da sole. […] Penso che Martelly abbia capito che ha un periodo di tempo limitato per produrre risultati tangibili per gli haitiani».
La corruzione delle istituzioni governative è un altro elemento che limita moltissimo la possibilità di fornire gli aiuti in maniera efficace. I farmaci della Croce Rossa tedesca, per esempio, sono stati trattenuti alla dogana haitiana per mesi perché le autorità tentano di applicarvi il 70 per cento di tasse. Le dispute per la proprietà dei terreni ritardano altri progetti, l’intervento governativo è lento e va spesso sollecitato per mesi.
La quasi totalità del suolo pubblico è occupata da tendopoli, che il governo tenta di sgomberare con le promesse, quasi mai mantenute, di nuove abitazioni o di denaro. Il primo ministro Garry Conille incolpa il governo precedente di corruzione e ritardi: «Abbiamo ereditato un sistema disfunzionale, senza documentazioni di transizione, pieno di ostacoli e di personale in eccesso».
La responsabilità della ricostruzione di Haiti è caduta in gran parte sulle organizzazioni umanitarie, dato che le decisioni del governo sono lente, poco trasparenti e non lasciano margini di fiducia rispetto alla loro efficacia: sono stati promessi posti di lavoro grazie alla creazione di un nuovo esercito e investimenti nei settori del turismo e dell’agricoltura, ma non è chiaro quanti posti di lavoro produrrebbero, con che tempi o a quali costi.
Il problema delle organizzazioni umanitarie è che non hanno la possibilità di gestire autonomamente i conflitti legali, come nel caso dei territori o delle case di cui qualcuno rivendica la proprietà, e di conseguenza il loro intervento è costretto a subire ritardi indefinibili. Né possono risolvere i problemi di violenza che si stanno creando all’interno dei campi profughi, dove si sono formate delle bande contro cui il governo non sembra intenzionato a prendere provvedimenti.
La sfida più importante rimane la rimozione di macerie e detriti per poter cominciare a ricostruire: processo che si sta rivelando lentissimo e gestito nella massima inefficienza. La comunità internazionale per il momento ha intenzione di continuare a far pervenire gli aiuti, nonostante la manifestata insofferenza verso l’accoglienza che questi stanno ricevendo, e la Inter-American Development Bank ha promesso di stanziare 200 milioni di dollari all’anno fino al 2020, mentre gli Stati Uniti hanno offerto altri 5,97 miliardi di dollari per lo stesso periodo di tempo.