Pietro Ichino e la definizione di terrorismo

Ieri le "nuove Brigate Rosse" sono state condannate per associazione sovversiva ma non per terrorismo, il senatore del PD non è d'accordo

Ieri la Corte d’Assise d’Appello di Milano ha condannato 11 imputati nel processo alle cosiddette “nuove Brigate Rosse” del “Partito Comunista politico-militare”. Le indagini erano iniziate nel 2004, mentre circa tre anni dopo c’è stata la cosiddetta operazione “Tramonto” del procuratore aggiunto Ilda Boccassini che ha portato all’arresto degli imputati.

Il “Partito Comunista politico-militare”, hanno stabilito i giudici di Milano, ha agito per sovvertire lo Stato, ha avuto la disponibilità di armi per raggiungere lo scopo, ma secondo la corte non può essere considerato un gruppo terroristico. Tra le varie sentenze (gran parte delle quali hanno visto condanne ridotte rispetto alle precedenti), Claudio Latino e Davide Bortolato, ritenuti i capi della cellula terroristica di Milano e di quella di Padova, sono stati condannati rispettivamente a undici anni e sei mesi e undici anni di reclusione. Vincenzo Sisi, considerato il capo della cellula torinese del gruppo, è stato condannato a dieci anni di carcere, mentre Alfredo Davanzo, ritenuto l’ideologo del gruppo, a nove.

Pietro Ichino, giuslavorista e senatore del PD, si era costituito parte civile nel processo perché, per l’accusa, l’organizzazione stava progettando un attentato contro di lui. Durante il processo alcuni degli imputati hanno rivolto critiche e minacce dirette allo stesso Ichino, che ha scritto una lettera pubblicata oggi dal Corriere della Sera in cui riconosce la sentenza ma critica la rinuncia dei giudici all’aggravante del terrorismo. A questo punto, dice Ichino, “resta il problema di capire che cosa, allora, secondo la Corte di Cassazione, sia ‘terrorismo’”.

Caro Direttore,

fin dall’inizio, dal primo grado del processo contro gli appartenenti alle “nuove Brigate Rosse”, che si è concluso ieri con la seconda sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Milano, ho proposto a ciascuno degli imputati di rinunciare alla mia costituzione in giudizio contro di loro, in cambio del puro e semplice riconoscimento del mio diritto a non essere aggredito. Ieri, durante l’ultima udienza del processo, ho ripetuto quella mia offerta di conciliazione e di dialogo. La risposta del loro leader, Alfredo Davanzo, è stata: “Questo signore – che sarei io – rappresenta il capitalismo, lui è l’esecutore di questo sistema e noi eseguiremo il dovere di sbarazzarci di questo sistema”. Dove “sbarazzarci” è evidentemente un eufemismo, mentre l’accento sinistro della frase sta tutto in quell’“eseguiremo”. In ogni caso, la risposta alla mia proposta è stata chiara: “non ti riconosciamo il diritto a non essere aggredito”. E la stessa minaccia ha numerosissimi destinatari, poiché di “esecutori di questo sistema” in giro per l’Italia ce ne sono evidentemente molti altri.

A questo punto qualcuno potrebbe sorprendersi che il processo si sia poi concluso con una sentenza che riconosce gli imputati colpevoli, sì, di associazione sovversiva (articolo 270 del codice penale), ma non di terrorismo (articolo 270-bis). Ma chi è addentro nelle cose della giustizia italiana si è sorpreso un po’ meno di questo esito. È plausibile, infatti, che con questa decisione la Corte d’Assise d’Appello abbia inteso conformarsi alla sentenza con cui il 2 aprile scorso la Cassazione aveva annullato la prima decisione, del 2010, della stessa Corte d’Assise, nello stesso processo, nella quale invece le finalità di terrorismo erano state riconosciute. In sostanza, la Cassazione imputava alla Corte milanese di non avere sufficientemente individuato e dimostrato, nel comportamento dei questi brigatisti, “il proposito di intimidire indiscriminatamente la popolazione, l’intenzione di esercitare costrizione sui pubblici poteri”, oppure “la volontà di destabilizzare” o addirittura “distruggere gli assetti istituzionali del Paese”. Dunque, progettare un attentato alla sede di un grande quotidiano nazionale e un agguato mirato a ferire o uccidere una persona qualsiasi, assunta quale “rappresentante del capitalismo”, secondo questa nuova giurisprudenza, non è di per sé “terrorismo”. Resta il problema di capire che cosa, allora, secondo la Corte di Cassazione, sia “terrorismo”.

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