La cassa integrazione va cambiata?

Pietro Ichino spiega perché dovrebbe servire nelle crisi temporanee, invece che a tenere i lavoratori attaccati per anni ad aziende fallimentari

Pietro Ichino, giuslavorista e senatore del PD, ha scritto sulla rivista online Tuttosullavoro un articolo che spiega perché bisognerebbe cambiare, secondo lui, il sistema della cassa integrazione: dando più soldi ai lavoratori delle aziende che fanno ricorso a questo istituto ma applicandolo solo alle aziende in ristrutturazione o in crisi momentanea, e non a quelle il cui fallimento è certo, per dare ai lavoratori maggiori possibilità di trovare un’altra occupazione.

Nella regione Veneto, che ha meno di 5 milioni di abitanti, nel corso del 2011 sono stati stipulati 145.600 contratti a tempo indeterminato ordinario, cui se ne sono aggiunti 515.000 a termine e 27.600 di lavoro domestico (per dati più analitici v. le slides di una mia recente lezione all’Università di Firenze, La riforma del lavoro e le contraddizioni della nostra cultura in questo campo). Il Veneto è la regione italiana economicamente più vitale, in questo momento; ma nel resto d’Italia nello stesso anno si stima che siano stati stipulati oltre sei milioni di contratti di lavoro. Anche in un anno di crisi, dunque, di lavoro ce n’è.

Ancora nel Veneto, nel corso del 2011 sono stati licenziati 34.478 lavoratori. Negli ultimi due anni, il 40 per cento di quelli che hanno perso un nuovo posto lo hanno trovato in un mese; il 60 per cento entro tre mesi; l’81 per cento entro un anno. Non, però, chi è stato collocato in Cassa integrazione: in questo caso la disoccupazione può durare anche sette anni, come è accaduto e accade ai dipendenti della Fimek di Padova, o a quelli della Iar Siltal di Bassano del Grappa. Lo stesso accade normalmente in tutta Italia: la durata del periodo di disoccupazione tende a coincidere con quella dell’integrazione salariale.

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