Le poesie di Wislawa Szymborska

Raccontò la vita ordinaria, le piccole-cose-quotidiane e il crollo delle ideologie, vinse il Nobel nel 1996 ed è morta ieri a 88 anni

Wislawa Szymborska, the 73 year-old Polish poet who won the 1996 Nobel Prize in literature, taking a brief walk in the southern montain resort of Zakopane on Friday, Oct. 4, 1996. Szymborska was on vacation in Zakopane, when the award was annouunced Thursday. (AP Photo/Czarek Sokolowski)
Wislawa Szymborska, the 73 year-old Polish poet who won the 1996 Nobel Prize in literature, taking a brief walk in the southern montain resort of Zakopane on Friday, Oct. 4, 1996. Szymborska was on vacation in Zakopane, when the award was annouunced Thursday. (AP Photo/Czarek Sokolowski)

«Dunque ci sei? Dritto dall’attimo ancora socchiuso?
La rete aveva solo un buco, e tu proprio da lì?
Non c’è fine al mio stupore, al mio tacerlo.
Ascolta
come mi batte forte il tuo cuore»

La poetessa polacca Wislawa Szymborska è morta ieri nella sua casa di Cracovia, a 88 anni. Dalla fine degli anni Cinquanta le sue poesie vennero tradotte in quasi tutte le lingue europee (compreso il russo, grazie ad Anna Achmatova), ma nel 1996, quando ricevette il premio Nobel per la letteratura, in Italia era praticamente sconosciuta e presente solamente con Gente sul ponte, una piccola raccolta pubblicata da Vanni Scheiwiller.

A dieci anni dal Nobel, Szymborska diventò un’autrice di culto anche nel nostro Paese. Il suo traduttore Pietro Marchesani scrisse: «se dalla borsa della piccola ladra del film Cuore sacro di Ferzan Özpetek cade a terra un volumetto di poesie della scrittrice polacca, in Italia, e in altri Paesi, sue poesie o citazioni dei suoi versi compaiono in riviste femminili di grande tiratura, nella pubblicistica, nei necrologi, nei discorsi di politici, in opere narrative (come Stanza 411 di Simona Vinci) o nelle canzoni di Jovanotti (Buon sangue: “Si nasce senza esperienza, si muore senza assuefazione”)»

A differenza di molti poeti suoi connazionali, Wislawa Szymborska non conobbe l’esilio scegliendo di sopportare le difficoltà della vita e della creazione artistica nel socialismo reale (che in Polonia significava fare quotidianamente i conti con la censura). Fino al premio Nobel Szymborska si spostò dunque molto poco dal suo Paese, preferendo una vita ritirata e solitaria: «Di solito mi descrivono come una persona allegra (…) perché quando ho dei crolli, delle preoccupazioni, non frequento la gente per non mostrare un volto cupo. E sembra che abbia vissuto come una farfalla, come se la vita non avesse fatto altro che accarezzarmi sul capo».

Wislawa Szymborska nacque il 2 luglio del 1923 a Bnin, oggi parte di Korinik, vicino a Poznan. Frequentò il ginnasio dalle suore Orsoline e lavorò come impiegata alle ferrovie di Stato per evitare la deportazione. Pubblicò le sue prime poesie nel 1945 sul quotidiano Dziennik Polski e in quell’anno si iscrisse a sociologia all’università Jagellonica, la più antica della Polonia. Abbandonò gli studi due anni dopo perché, disse, «nel 1947 la sociologia diventò mortalmente noiosa: si doveva spiegare tutto con il marxismo».

Nel 1952 aderì comunque all’ideologia comunista, entrò a far parte del Partito Operaio Unificato Polacco (PZPR) e pubblicò il suo primo volume di poesie: Per questo viviamo. Del 1954 è invece la raccolta Domande poste a me stessa. Di entrambi i libri («manifestazione di una poesia socialista impegnata e anche sintomi della seduzione ideologica di una persona in definitiva molto giovane e molto fervente»), l’autrice non autorizzò più la ristampa.

Se la rottura con il partito comunista avvenne formalmente solo nel 1966, già con la raccolta Appello allo Yeti (1957) la Szymborska dimostrò di essersi allontanata da quell’ideologia, raccontandone le macerie:

«La storia che non si affanna
alle trombe mi accompagna.
Gerico viene chiamata
la città da me abitata.

Mi frana di dosso pezzo
a pezzo la cinta muraria.
Sto in piedi tutta nuda
sotto la divisa d’aria.

suonate, trombe, e come si confà,
suonate insieme a più non posso.
Ormai solo la pelle cadrà
e mi discolperanno le ossa»

La storia che non si affanna, da Appello allo Yeti, 1957

Negli anni Settanta diventò ricorrente nella sua opera il rifiuto di ogni utopia, nonostante in Polonia fosse ancora il tempo del regime comunista di Edward Gierek.

Isola dove tutto si chiarisce.

Qui ci si può fondare su prove.

L’unica strada è quella d’accesso.

Gli arbusti si piegano sotto le risposte.

Qui cresce l’albero della Giusta Ipotesi
con rami  districati da sempre.

Di abbagliante linearità è l’albero del Senno
presso la fonte detta Ah Dunque È Così.

Più ti addentri nel bosco, più si allarga
la Valle dell’Evidenza.

Se sorge un dubbio, il vento lo disperde.

L’Eco prende la parola senza che la si desti
e chiarisce volenterosa i misteri dei mondi.

A destra una grotta in cui giace il Senso.

A sinistra il lago della Profonda Convinzione.
Dal fondo si stacca la Verità e lieve viene a galla.

Domina sulla valle la Certezza Incrollabile.
Dalla sua cima si spazia sull’Essenza delle Cose.

Malgrado le sue attrattive l’isola è deserta,
e le tenui orme visibili sulle rive
sono tutte dirette verso il mare.

Come se da qui si andasse solo via,
immergendosi irrevocabilmente nell’abisso.
Nella vita inconcepibile.

Utopia, in Grande numero, 1976

Contro i rituali pubblici, l’ideologia del “noi” e i grandi numeri, quello che Wislawa Szymborska volle guardare e raccontare furono le singolarità, le piccole cose quotidiane, l’ordinario. Con un linguaggio semplice, senza «parola sfrontate e gonfie di boria».

«Dopo ogni guerra
c’è chi deve ripulire.
In fondo un pò d’ordine
da solo non si fa.

C’è chi deve spingere le macerie
ai bordi delle strade
per far passare
i carri pieni di cadaveri.

C’è chi deve sprofondare
nella melma e nella cenere,
tra le molle dei divani letto,
le schegge di vetro
e gli stracci insanguinati.

C’è chi deve trascinare una trave
per puntellare il muro,
c’è chi deve mettere i vetri alla finestra
e montare la porta sui cardini.

Non è fotogenico
e ci vogliono anni.
Tutte le telecamere sono già partite
per un’altra guerra.

Bisogna ricostruire i ponti
e anche le stazioni.
Le maniche saranno a brandelli
a forza di rimboccarle.

C’è chi, con la scopa in mano
,
ricorda ancora com’era.
C’è chi ascolta
annuendo con la testa non mozzata.

Ma presto
 lì si aggireranno altri
che troveranno il tutto
un po’ noioso.

C’è chi talvolta
dissotterrerà da sotto un cespuglio
argomenti corrosi dalla ruggine
e li trasporterà sul mucchio dei rifiuti.

Chi sapeva
di che si trattava,
deve far posto a quelli
che ne sanno poco.
E meno di poco.
E infine assolutamente nulla.

Sull’erba che ha ricoperto
le cause e gli effetti,
c’è chi deve starsene disteso
con la spiga tra i denti,
perso a fissare le nuvole».

La fine e l’inizio, da La fine e l’inizio, 1993

Quando Szymborska accettò il premio Nobel, nel suo discorso (poi tradotto e pubblicato in Vista con granello di sabbia, poesie 1957-1993), disse:

«Nel parlare comune, che non riflette su ogni parola, tutti usiamo i termini “mondo normale”, “vita normale”, “normale corso delle cose”… Tuttavia nel linguaggio della poesia, in cui ogni parola ha un peso, non c’è più nulla di ordinario e normale. Nessuna pietra e nessuna nuvola su di essa. Nessun giorno e nessuna notte che lo segue. E soprattutto nessuna esistenza di nessuno in questo mondo. A quanto pare, i poeti avranno sempre molto da fare».