La stazione di Trieste Campo Marzio

Paolo Rumiz su Repubblica racconta la lunga e nobile storia della stazione di Trieste Campo Marzio: oggi ospita un museo, che rischia di chiudere

Paolo Rumiz su Repubblica racconta la lunga e nobile storia della stazione di Trieste Campo Marzio, che dal 1984 ospita un museo ferroviario gestito interamente da volontari, che non riceve contributi statali e che si trova ora in difficoltà economiche: Trenitalia vorrebbe vendere l’edificio, mentre la storia della ferrovia a Trieste va di pari passo con la storia della città nel secolo scorso, da snodo importante a centro isolato.

La inaugurò Francesco Ferdinando nel 1906 prima di morire ammazzato a Sarajevo. La usarono come terminal i convogli di lusso della Canadian Pacific giunti dalle gallerie dei Tauri. Vi partirono i soldati della Grande guerra e vi arrivarono gli italiani in fuga dallo jugo-comunismo. Negli anni Settanta vi approdarono dall’Est carrozze piene di compratori affamati di jeans, poi vi vennero girati film come Anna Karenina. Oggi non arrivano più treni e va di scena lo sfratto, la chiusura definitiva, la fine della più gloriosa stazione triestina e delle meraviglie in essa contenute, uno dei più bei musei ferroviari d’Europa. Succede che Trenitalia ha costretto i volontari che lo gestiscono ad andarsene, triplicando loro l’affitto già pesantissimo. La loro colpa? Avere impedito che andasse in rovina il capolavoro del più prestigioso waterfront dell’Adriatico. La stazione di Campo Marzio, capolinea di quella che l’Austria chiamò “Transalpina”. Narrano che nel 2008 Mauro Moretti, gran capo dell’azienda, in una sua visita a Trieste, dopo avere visto nelle sale d’aspetto le stufe originali in maiolica, la piumata feluca del primo capostazione, montagne di cimeli e un secolo di vaporiere schierate all’esterno, abbia dato una pacca sulle spalle ai custodi del Dopolavoro ferroviario, dicendo loro «bravi ragazzi». Aveva buone ragioni per fregarsi le mani. Quelli non solo gli avevano messo insieme un patrimonio collezionistico inestimabile e si erano presi sulle spalle il costo della manutenzione straordinaria, ma pagavano di tasca propria un affitto di 54mila euro l’anno senza un centesimo di aiuto pubblico.

Ma la partita, si capì di lì a poco, era più importante di un museo. Era la vendita della seconda stazione triestina. Era la chiusura della linea, la rottamazione dei binari “in sonno” che ancora collegano la città all’Istria, alla Slovenia e al Centro Europa. E poiché i “bravi ragazzi” erano un intralcio a questa operazione immobiliare, si è ben pensato di alzare loro il canone a 140mila euro. Cifra insostenibile, che – in assenza di aiuti dall’esterno – condanna il museo alla chiusura e la stazione (sulla quale Trenitalia non ha mai speso un euro) al decadimento e alla rovina. Sfratto, come a clandestini morosi e non a benefattori che danno lustro a Trenitalia e senso alla memoria ferroviaria del Paese.

Per chiudere in fretta l’affare Moretti andrà di persona a Trieste ai primi di febbraio, e subito si è capito che la partita sarà di vasta portata. Il rischio è la definitiva cancellazione della città dalla mappa ferroviaria italiana. Per capire cosa accade basta guardare gli orari conservati nelle bacheche della stazione. Un secolo fa, con una sola coincidenza si andava a Praga, Cracovia e Stoccarda. La città era al centro d’Europa. Perfino trent’anni fa era meglio di oggi, senza Schengen e con la cortina di ferro di mezzo. Sull’altopiano passava ancora il Simplon Orient Express diretto a Istanbul, e in wagon lit potevi andare a Parigi, Genova, Roma, Budapest, Belgrado. Oggi vai solo a Udine e Venezia, con i treni più lenti d’Italia.
Il confronto più deprimente è quello che tocca i collegamenti con Vienna. C’erano dodici treni al giorno, tutti diretti. Oggi nessuno. Con trazione a vapore, il viaggio durava dieci ore e sette minuti contro le nove e ventotto di oggi, epoca dell’alta velocità. Un viaggio così lento e così umiliante – due cambi, tre biglietti e una tratta in pullman – che il sindaco di Trieste Roberto Cosolini, dovendo incontrare il Burgermeister di Vienna, ha voluto farlo di persona, per masticare fino in fondo l’amaro della sua emarginazione.

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