Ichino risponde su lavoro e articolo 18

Il senatore del PD scrive al Corriere e risponde alle critiche del suo collega Damiano, che definisce ragionevoli e di merito

Cesare Damiano, deputato e responsabile lavoro del PD, ex sindacalista della FIOM ed ex ministro del Lavoro, intervistato ieri dal Corriere della Sera aveva detto [pdf] che applicare in Italia il modello danese sul mercato del lavoro è impossibile, sollevando alcune questioni di merito relative al progetto di riforma promosso da Pietro Ichino, senatore e giuslavorista del PD. Oggi Ichino risponde sul Corriere.

Caro Direttore, nel dibattito sulla riforma del mercato del lavoro che si è aperto dopo l’intervista del ministro Elsa Fornero al Corriere del 18 dicembre, si osserva una straordinaria divaricazione tra la sostanza politico-economica della questione, che viene per lo più sottaciuta, e gli argomenti sui quali ci si accapiglia. Il primo tema caldo sollevato a sproposito è stato quello del rischio che l’introduzione di una nuova disciplina del lavoro in un periodo di recessione economica scateni un’ondata di licenziamenti.

Il capo del governo Mario Monti è stato chiarissimo, fin dal discorso programmatico del 17 novembre, sul punto che la riforma non deve toccare i rapporti di lavoro già costituiti, bensì soltanto quelli destinati a costituirsi da qui in avanti. Nella congiuntura attuale, dunque, la riforma potrà influire soltanto sul flusso delle assunzioni, non certo su quello dei licenziamenti.

Un altro tema caldo, anzi caldissimo, sollevato a sproposito per chiudere il discorso prima ancora che si apra, è quello dell’intangibilità dell’articolo 18 dello Statuto, come chiave di volta della protezione della libertà e della dignità dei lavoratori. Ora, la questione che il ministro del Lavoro ha posto nella sua intervista al Corriere è proprio quella del come voltar pagina rispetto a una situazione che vede le nuove generazioni per lo più escluse da quella protezione. E tutti i progetti di riforma oggi sul tavolo prevedono che per questo aspetto – cioè in particolare quello della tutela antidiscriminatoria – il campo di applicazione dell’articolo 18 venga esteso a tutta la vasta area di lavoro sostanzialmente dipendente che ne è attualmente esclusa.

Molto più serie sono le questioni sollevate da chi, come Cesare Damiano, nell’intervista al Corriere di ieri, entra nel merito del problema. Le obiezioni dell’ex-ministro del Lavoro alla prospettiva enunciata da Mario Monti di imitare in Italia il modello scandinavo sono essenzialmente tre: i Paesi scandinavi sono molto più piccoli del nostro; il loro mercato del lavoro è dotato di servizi molto più efficienti dei nostri; essi infine dispongono di molte più risorse economiche per il sostegno del reddito dei lavoratori che perdono il posto. A ben vedere, è sostanzialmente lo stesso discorso che su queste pagine ha proposto Mario Fezzi, avvocato della Cgil, il 30 novembre scorso. Entrambi questi interventi, molto ragionevolmente, lasciano intendere il vero nodo politico: affrontiamo e risolviamo prima la questione della sicurezza economica e professionale dei lavoratori, e la questione di come estenderla davvero a tutti i lavoratori; risolta quella, un accordo sulle regole della flessibilità del lavoro non faticheremo a trovarlo.

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Che cos’è l’articolo 18