Questo weekend si terrà a Bologna la riunione convocata insieme da Pippo Civati e Debora Serracchiani: rispettivamente consigliere regionale e deputata europea del Partito Democratico, i due più visibili esponenti delle possibilità di rinnovamento – generazionale e non solo – di quel partito, assieme al sindaco di Firenze il quale ha programmato invece per il fine settimana successivo una sua convention fiorentina, un anno dopo quella che già organizzò con Civati nella stessa stazione Leopolda. Nel frattempo si sono visti per la seconda volta in due mesi – stavolta all’Aquila – alcuni trenta-quarantenni del PD più fedeli alla attuale dirigenza del partito ma con loro ambizioni di ricambio, meno sovversive.
I movimenti di queste persone – che si portano dietro idee, progetti e visioni già molto ricchi e che saranno ulteriormente arricchiti nei due incontri prossimi – uniti alla precarietà confusa dello scenario politico, creano una situazione propizia come non è mai stata per un eventuale e auspicabile cambiamento del maggiore partito di opposizione, che ha la responsabilità di essere da modello per un auspicabilissimo rinnovamento generale del paese e invece continua ad apparire gestito con meccanismi e letture antiche da persone che lo hanno governato in tempi diversi e lontani (con ampi meriti ma anche una recente cospicua dose di fallimenti) e che non mostrano oggi di essere in grado di attrarre sufficienti nuovi consensi di fronte alla crisi del centrodestra. E il cambiamento del Partito Democratico e la sua capacità di raccogliere forze e pensieri nuovi di cui oggi parla Stefano Menichini passano inevitabilmente per un eventuale ricambio della leadership, come avviene in ogni trasformazione politica. Vediamo di capire quali sono i protagonisti in ballo, come si stanno muovendo e che cosa potrebbe succedere nel mescolarsi dei loro movimenti.
1. Matteo Renzi
Renzi vuole evidentemente fare il candidato premier del centrosinistra, e ha dalla sua un consenso esteso e crescente nell’elettorato di centro e persino tra chi non vuole più votare per il centrodestra. Oggi non c’è nessuno a sinistra che abbia il suo potenziale di attrattiva per quei voti in più che permetterebbero di battere il centrodestra, ed è per questo il candidato più competitivo alle eventuali elezioni. Ma vale anche per lui il solito discorso della “coperta corta”. Tanto ha fatto e tanto ha detto che è riuscito a giocarsi la simpatia di cospicue parti degli elettori di sinistra e delle strutture del PD, che anzi lo vedono con punte di malevolenza anche molto aggressive. Questo significa in particolare che parte molto sfavorito alle eventuali primarie del centrosinistra. Alle quali peraltro, a rispettare lo statuto del PD, non può neanche partecipare (l’unico candidato permesso è il segretario).
Dovrebbe quindi proporre di cambiare lo statuto, ma naturalmente la richiesta non avrebbe gran forza se posta solo come principio astratto: per farlo deve finalmente dire che vuole candidarsi. Ma l’impressione è che Renzi voglia aspettare più che può, per prudenza e perché non vuole sottrarsi alla responsabilità attuale di sindaco di Firenze. La prospettiva che più gli starebbe bene è che non si vada a votare fino al 2013, quando avrà già fatto quattro anni di cinque e un suo improrogabile lavoro di ampliamento del consenso a sinistra e rafforzamento nel PD sia cresciuto.
Se però il governo cadesse prima, si troverà costretto a stringere i tempi e cercare delle soluzioni. Se proponesse la modifica dello statuto per candidarsi alle primarie, tra l’altro, potrebbe pure ricevere un rifiuto, data la sua debolezza in Direzione Nazionale: anche se il rifiuto suonerebbe molto personale e i vertici del PD si assumerebbero la responsabilità di quello che suonerebbe un capriccio e un regolamento di conti interno, oltre che dell’impedire a un candidato con molto seguito di partecipare, e a un dissenso di esprimersi. Se Renzi poi arrivasse alle primarie contro Bersani, Vendola e Di Pietro (ed è difficile capire chi ne sarebbe più danneggiato dei tre), le sue chances sarebbero legate per forza alla sua capacità di trovare alleati nel PD, e gli unici forti e plausibili sono i veltroniani. I quali – come si vede in queste settimane – hanno ritrovato voglia e ragioni per piantare grane a Bersani e alla maggioranza, ma sono privi di un’eventuale alternativa da proporre se si arrivasse a poterla proporre. Veltroni ci vuole stare ma capisce di non essere più spendibile in prima linea, in un percorso simile ancora una volta a quello di D’Alema: e non ha nessuno da promuovere (in questo è più indietro di D’Alema). I rapporti tra Renzi e i veltroniani però non sono ottimi, per passate tensioni (la candidatura a sindaco di Firenze fu contro Veltroni stesso, allora leader) e presenti distanze. Difficile aderire a un progetto di rinnovamento così aggressivo come quello di Renzi quando si hanno tra i propri maggiori esponenti personaggi che corrispondono esattamente all’identikit del rottamando (per quanto Renzi stia lavorando per emanciparsi da quel linguaggio). Non che un avvicinamento sia da escludere, se ne è già parlato, ma non sarà facile.
E questo manda in corto circuito le prospettive più immediate di Renzi, a meno che. A meno che non ricostruisca il rapporto e l’alleanza con Pippo Civati, saltati per dissensi politici – che potrebbero convivere e trovare compromessi – e insufficiente fiducia reciproca, il vero problema su questa strada. E forse un problema generale di Renzi, che spesso pare molto solo e accentratore, con difficoltà a leggerne intenzioni e pensieri anche da parte di chi lavora con lui. Il risultato è che la sua iniziativa appare tutta concentrata su di lui, sull’efficacia fulminante dei suoi annunci e battute e sull’ottima comunicazione del suo lavoro da sindaco. Ma non esiste un solo nome di “renziano” che venga in mente, altro che corrente. E costruire qualcosa intorno a sé di più ampio e qualificato – e meno evanescente della pur ricca convention fiorentina annunciata – dovrebbe essere il suo primo pensiero: c’è riuscito persino Luca di Montezemolo.