Cosa vogliono dire le tende in Israele

Anna Stefi su Doppiozero racconta cosa succede in un paese che comincia a preoccuparsi più del suo interno che del suo esterno

Anna Stefi è stata a Tel Aviv e racconta su Doppiozero cosa ha visto e cosa ha capito delle proteste di questi giorni.

Non so se vi sia capitato tra le mani l’articolo di David Grossman, pubblicato sabato 6 agosto su “Repubblica”. Grossman, con la lucidità e la delicatezza che gli sono proprie, si interroga, come israeliano, come cinquantenne, come uomo di cultura, sulla protesta che domenica 31 luglio ha portato migliaia di persone davanti alla Knesset (“Casa del Parlamento”) a Gerusalemme.

Non sono tanto le ragioni della manifestazione a interessarlo, la richiesta di giustizia sociale o l’esigenza di vedersi garantire un più adeguato sistema di assistenza sanitaria, né le modalità, per quanto rifletta anche sul senso del suo ritrovarsi in mezzo a una folla arrabbiata e urlante. Quel che gli interessa capire è sopratutto cosa significhi un simile evento in una nazione come Israele, cosa comporti, perché accada in questo preciso momento storico, come rispondere e in che forma partecipare a questa «ri-vo-lu-zio-ne» (sic).

L’articolo restituisce appieno qualcosa su cui mi sono interrogata di recente, di ritorno da Tel Aviv. È la terza volta che vado in Israele, nel 2011. E non senza stupore ho percorso meno di due settimane fa Rothschild Avenue, prima viale alberato dove passeggiare tra le due carreggiate, ora vera e propria città di tende, spettatrice di qualcosa che mi è parso molto più che una semplice protesta per il caro affitti. Lo stupore di cui parlo nasce non soltanto dalle dimensioni dell’evento, dalla bellezza, dalla straordinaria organizzazione messa in campo, anni luce distante da qualsiasi protesta di cui sia stata testimone nella mia vita, ma soprattutto dal contrasto tra ciò che mi ha circondato in quei giorni e le sensazioni che mi portavo appresso, eredità delle due visite precedenti.

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