Il declino dell’anonimato online

Arriva Facebook a gestire i commenti e le registrazioni degli utenti, e molti siti non vedevano l'ora

Wooden masks are offered to tourists at a handicrafts market in Antigua Guatemala, some 50 km west of Guatemala City, on April 23, 2011. AFP PHOTO/JOHAN ORDONEZ (Photo credit should read JOHAN ORDONEZ/AFP/Getty Images)
Wooden masks are offered to tourists at a handicrafts market in Antigua Guatemala, some 50 km west of Guatemala City, on April 23, 2011. AFP PHOTO/JOHAN ORDONEZ (Photo credit should read JOHAN ORDONEZ/AFP/Getty Images)

La vecchia battaglia contro i commenti online violenti, capricciosi, piantagrane o volgari somiglia a quella contro le zanzare nei paesi moderni a climi miti. Non pericolose abbastanza da non poterci convivere, eppure moleste e onnipresenti: il sistema ha costruito dei sistemi per moderarne il fastidio e limitarlo, ma non per debellarlo.

Nel frattempo, che ci fosse una differenza tra la legittima aspirazione di libertà e democrazia in rete e la totale mancanza di regole di convivenza civile è divenuto chiaro a chi internet la frequenta e studia da molto tempo: e l’idea che ci siano delle fanatiche vestali della totale deregulation online è un’idea molto vecchia e che i critici della rete usano strumentalmente ogni volta che qualche provocatore marginale gliene dà l’occasione. Invece della qualità e civiltà dei contenuti 2.0 la rete discute da molto tempo, e la tesi che ogni spazio sia di tutti quelli che ci passano per farci qualunque cosa è una tesi ingenua e accantonata da tutti se non dai vandali, oggi ritenuti giustamente tali.

Negli anni si sono succeduti in molti siti e blog anche aspri confronti tra i responsabili e i commentatori più molesti, con iniziative di repressione, a volte drastiche: chiusure dei commenti, moderazioni severe, esclusioni. Senza peraltro nessuna grave perdita per la libertà di espressione. (Nota: al Post i commenti non sono moderati preventivamente, salvo che in alcuni rari casi, per ragioni di risorse e non di scelta ideologica; ma sono controllati e valutati a pubblicazione avvenuta). Il direttore del magazine online americano Gawker ha addirittura cominciato a riflettere sulle controindicazioni della creazione di comunità di commentatori fedeli, in termini di allontanamento di nuovi lettori: contribuendo a smontare la ragione prima dell’apertura dei commenti da parte dei siti di news, l’idea che “facciano comunità” (molti siti di giornali tradizionali non ammettono del tutto i commenti, soprattutto quelli italiani).

Ma da qualche settimana è comparso in questa discussione e nelle pratiche conseguenti un attore nuovo, che sta incuriosendo molti grandi siti e blog. Ne ha parlato il mese scorso anche un articolo dell’Economist.

I troll sono difficili da trovare nel mondo reale, ma fin troppo diffusi in quello virtuale. Il “trolling” – pubblicare commenti volontariamente aggressivi, fuori tema o semplicemente stupidi – infesta i blog e gli altri spazi online. Adesso esiste un rimedio per reprimerlo, ma potrebbe essere peggiore del male.

Il trolling è un effetto collaterale dell’anonimato online. “In rete, nessuno sa che sei un cane”, diceva una vignetta del New Yorker del 1993. Il problema è che in molti si comportano come se lo fossero.

Molti nel mondo online difendono la libertà di parola al punto di esitare a escludere anche il suo uso maligno. L’anonimato e gli pseudonimi sono altrettanto apprezzati: molti siti preferiscono non insistere sull’uso dei nomi reali, che tende a favorire comportamenti migliori da parte dei commentatori.

Finalmente, è apparsa un’arma contro i troll: Facebook. Il social network più grande del mondo chiede che i suoi utenti usino i loro nomi reali. Avere più di un’identità, dice Mark Zuckerberg, “è un esempio di mancanza di coerenza”. La maggior parte degli utenti di Facebook si adegua volontariamente perché vuole avere a che fare con amici reali, non inventati.

Facebook ha cominciato a offrire ai siti web una sorta di “outsourcing” dei commenti, gestiti da Facebook attraverso la pratica già estesissima di “Facebook connect”. L’utente può fare il login al sito attraverso il suo account di Facebook (come avviene già anche sul Post) o di altri servizi online, e tutta la parte dei commenti è gestita e ospitata da Facebook, che permette al sito in questione di “embeddarla” all’interno delle proprie pagine. La funzione è stata rilanciata lo scorso 1 marzo dopo una prima introduzione e diversi grandi siti la hanno già adottata (il Post sta pesando benefici e controindicazioni). La si può vedere usata qui o qui.

L’Economist dice che i primi risultati sono incoraggianti: i commenti diminuiscono in numero ma migliorano molto in qualità dei contenuti. Ma quello che i siti che usano il nuovo sistema perdono lo guadagnano moltiplicato in traffico favorito da Facebook: i commenti degli utenti ottengono infatti la usuale redistribuzione presso amici e bacheche che è riservata a ogni loro attività sul social network.

E allora che dubbi ha l’Economist? I soliti, sensati, e che non arresteranno nessuno (lo stesso Economist ha infatti cominciato a usare il sistema): che Facebook – in concorrenza con Google – diventi il proprietario e il gestore di troppi dati che ci riguardano, arrivando a “possedere persino le nostre opinioni”. Ma sappiamo bene anche che siamo noi a dargliele. E poi, come ha spiegato Fahrad Manjoo su Slate, la procedura sottrae gli utenti alla moltiplicazione delle registrazioni e quindi alla consegna dei propri dati a nuove e incontrollabili gestioni: è vero che Facebook possiede molto di noi, ma è anche vero che così lo possiede solo Facebook. E Manjoo pensa che ne valga la pena.

L’anonimato è stato a lungo celebrato come una delle filosofie fondanti della rete, una difesa essenziale a protezione della nostra privacy. Ma è un’idea che non ha più senso. In tutti i contesti non estremi – ovvero ovunque non viga un regime repressivo – l’anonimato è nocivo per le comunità online. Consentirlo in situazioni pubbliche incoraggia a comportarsi male. E non dovremmo fermarci ai commenti. I siti web dovrebbero cominciare a chiedere a ognuno che sia coinvolto in attività pubbliche online di usare il proprio nome: sia che recensisca un ristorante o dia un voto a un libro. In quasi tutti i casi il web sarebbe un posto migliore se tutti dicessero agli altri chi sono.

Gli studi sociali hanno dimostrato che quando le persone sanno che le loro identità sono segrete (sia online che offline) si comportano assai peggio. Scientificamente si chiama “effetto di disinibizione online”, ma nel 2004 il fumetto Penny Arcade ha coniato un nome più chiaro: “la grande teoria del coglione online”. Se dai a una persona normale l’anonimato e un pubblico, dice la teoria, la trasformi in un coglione totale. Le prove si possono trovare nei commenti di YouTube, nelle partite multiplayer di Xbox e in coda a quasi ogni articolo di politica sul web.

Manjoo concede che qualcosa si possa perdere, con la fine dell’anonimato libero: ma chiede di bilanciarlo con quello che si guadagna in termini di civiltà e rilevanza dei commenti. E il numero dei siti che passano a Facebook per gestire i propri commenti cresce ogni giorno.