La deputata abusiva

Maria Grazia Siliquini è stata premiata per il suo appoggio al governo con un incarico alle Poste: che rende illegittimo il suo incarico al parlamento

Aggiornamento di giovedì 14 aprile: il giorno dopo la pubblicazione di questo articolo Maria Grazia Siliquini ha annunciato di rinunciare al ruolo in Poste Italiane per mantenere il suo incarico di parlamentare.

Negli scorsi mesi il Post aveva seguito le vicende di due deputati, Giuseppe Drago e Pippo Gianni, che abbiamo definito “deputati abusivi”: perché hanno occupato un seggio parlamentare per molto tempo – per mesi, nel caso di Drago – nonostante per le leggi vigenti entrambi fossero incompatibili con l’incarico di deputato della Repubblica. Nel caso di Drago, c’era una condanna definitiva all’interdizione dai pubblici uffici; nel caso di Gianni, il fatto che fosse contemporaneamente deputato nazionale e deputato regionale. Ora c’è un altro caso del genere.

Maria Grazia Siliquini è una deputata della Repubblica. Eletta nel 2008 nelle liste del PdL, nel corso dei mesi si avvicina molto alle posizioni dei finiani e a maggio 2010 entra in Generazione Italia. Il 30 luglio esce dal PdL insieme ai suoi colleghi e fonda Futuro e Libertà. Il 14 dicembre, però, quando alla Camera le sorti del governo erano appese a un cruciale voto di fiducia, Siliquini cambia idea pochi minuti prima di votare ed esprime la sua fiducia al governo, tra insulti e le proteste dei deputati dell’opposizione. Il suo voto contribuisce a tenere in vita l’esecutivo in un giorno che oggi sappiamo essere stato decisivo per la storia recente di questo Paese. Siliquini diventa fondatrice del gruppo dei cosiddetti Responsabili che diventerà la nuova stampella della maggioranza, in quotidiana trattativa per ottenerne in cambio posti e ruoli (a cominciare da quello del Ministro dell’Agricoltura consegnato a Saverio Romano).

Qualche mese dopo, e veniamo praticamente ai giorni nostri, il ministero dell’Economia e la presidenza del Consiglio sono impegnati in un importante lavoro di rinnovo dei Consigli di amministrazione delle società controllate dallo Stato. Finmeccanica, ENI, Enel, Terna, per capirsi. All’inizio di questo mese il cerchio si chiude, vengono rese note le nomine e salta fuori la designazione di Maria Grazia Siliquini – quella Maria Grazia Siliquini – nel Consiglio di amministrazione di Poste Italiane.

Anche sforzandosi di lasciar perdere le ragioni che hanno portato il governo a scegliere Siliquini per quell’incarico – perché? in funzione di quali competenze? è stata una ricompensa per aver votato in un certo modo il 14 dicembre? – c’è un’altra questione. E non è una questione di opportunità: è una questione ineludibile. Come ha ricordato qualche giorno fa Sergio Rizzo sul Corriere della Sera, la legge numero 60 del 13 febbraio 1953 stabilisce che

I membri del Parlamento non possono ricoprire cariche, né esercitare funzioni di amministratore, presidente, liquidatore, sindaco revisore, direttore generale o centrale, consulente legale o amministrativo con prestazioni di carattere permanente, in associazioni o enti che gestiscano servizi di qualunque genere per conto dello Stato o della pubblica amministrazione, o ai quali lo Stato contribuisca in via ordinaria, direttamente o indirettamente.

Non ci sono eccezioni. Chi ricopre l’incarico di consigliere di amministrazione di una società controllata dallo Stato non può ricoprire anche l’incarico di parlamentare. Maria Grazia Siliquini non ha ancora dato le dimissioni. Intervistata il 6 aprile da Luciano Borghesan per la Stampa, la deputata abusiva ha detto così.

Lascerà il seggio?
«Vedrò, in caso di problemi».

«Vedrò, in caso di problemi» è una risposta che aggiunge ridicolo a una situazione già imbarazzante. I problemi ci sono: l’incarico di consigliere di amministrazione di Poste Italiane è incompatibile con quello di parlamentare. C’è poco da vedere.

La questione delle dimissioni di Siliquini non riguarda solo lei ma tutta la Camera dei Deputati. La legge, infatti, prevede che la lettera di dimissioni di un deputato o di un senatore non basti a farlo decadere dall’incarico: serve infatti il voto a favore dell’aula. Un parlamentare non è in grado di dimettersi se la maggioranza dei suoi colleghi non convalida la sua decisione. Quella che oggi sembra (e probabilmente è diventata) una misura ingiusta e corporativa era stata pensata per evitare che un parlamentare potesse essere forzato alle dimissioni. Per evitare che un parlamentare potesse essere ricattato e costretto a farsi da parte si stabilì che le sue dimissioni dovessero essere convalidate a maggioranza dall’aula.

Non ha funzionato così, nella maggior parte dei casi. Come è accaduto altre volte, una norma sensata e garantista ha visto un utilizzo distorto e lontano dagli scopi per cui era stata pensata. Le dimissioni dei parlamentari rimbalzano per mesi tra la giunta e l’aula, cavillo dopo cavillo, seduta-lampo dopo seduta-lampo, finché non se fa nulla. Lo abbiamo visto col caso del deputato Drago e con molti altri. Ne ricordiamo uno su tutti, il più recente: il senatore Nicola Rossi, eletto nelle liste del PD, alla fine di gennaio ha annunciato e molto argomentato la sua decisione di lasciare il Parlamento, il PD e la politica. Il 2 febbraio le sue dimissioni sono state discusse e respinte dal Senato: Rossi voleva dimettersi, il Senato ha deciso che no. Tutti i gruppi parlamentari si sono espressi contro la sua richiesta di dimissioni, esprimendo apprezzamento per le sue qualità. Vediamo cosa succede con Maria Grazia Siliquini.

Tutti i traslochi dei parlamentari (infografica)
– Editoriale: I disponibili
I guai giudiziari del ministro Romano