Perché la Tunisia non si può occupare degli immigrati

Quello che attende Berlusconi domani, spiegato sulla Stampa

Le pretese italiane di maggior collaborazione da parte delle autorità tunisine sulle partenze e sui rimpatri degli immigrati sono destinate a sicuro insuccesso, spiega dalla Tunisia Domenico Quirico sulla Stampa: bisogna capire cosa sta succedendo lì.

Nell’agenda degli interlocutori di Berlusconi domani, il presidente Fouaad Mebazan e il primo ministro Beji Essebi, ci sono impigli come questi. I clandestini sono, in fondo, un contorno. Loro sono leader, come dire, ad interim: nel senso che cercano di stare a galla su un vulcano ancora vivo e incandescente. Dirigono una rivoluzione in sospeso, tra parentesi, che non dimentica la loro anagrafe politica, in gran parte di ex gerarchi del dittatore cacciato dalla furia delle piazze. Gettano continuamente zavorra, l’ultimo pochi giorni fa, il ministro degli Farhat Rashi: peccato, era considerato un eroe della rivoluzione perché aveva smantellato la sicurezza di stato, la polizia politica del regime.
In attesa delle elezioni di luglio (se non arriveranno altri sconquassi, seconde ondate o controrivoluzioni), la Tunisia non può promettere nulla se non dicendo bugie, «non rispettare i patti» come accusa Berlusconi è una necessità. Accettare il ritorno a casa forzato di migliaia di giovani che sono partiti per Lampedusa e l’Europa sarebbe per «i provvisori» del Palazzo di Cartagine una forma di suicidio. La immigrazione, clandestina o no, verso l’Europa è una conquista della rivoluzione, dopo gli anni di Ben Ali per cui gli scafisti rischiavano trentanni e i passeggeri tre e non partiva una barca. «C’è la democrazia, ho il diritto di andarmi a cercare la felicità», dice proprio così, «la felicità», sintetizzando un ragazzo che si è imbarcato ieri sera.

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