La scuola per cambiare il mondo

Stefano Chiodi chiede se l'idea dell'istruzione come strumento di formazione al lavoro e alla competenza non sia superata dai fatti

Sulla rivista online Doppiozero Stefano Chiodi propone di rimuovere, a sinistra, l’idea di una ricostruzione del ruolo della scuola come luogo di formazione di competenze professionali ed “elemento chiave dello sviluppo economico”: “la scuola non può più servire a formare lavoratori che il sistema respinge, ma può formare individui liberi che contribuiscono a cambiare la società”.

Di fronte allo smantellamento dell’istruzione pubblica del nostro paese e alla prospettiva di un futuro per i giovani basato addirittura, parola di ministri della Repubblica, su “lavoro manuale e umiltà”, la risposta più frequente, anche e soprattutto a sinistra, è che l’istruzione vada sostenuta e incrementata perché elemento chiave dello sviluppo economico: più laureati uguale più lavoro, più reddito, più ricchezza per tutti. Il circuito virtuoso tra livello d’istruzione e crescita economica è stato in effetti una delle molle fondamentali dello sviluppo delle società occidentali nella seconda parte del Novecento, la premessa per l’affermazione di quella classe media responsabile della modernizzazione in senso democratico e socialmente responsabile delle nostre società. Ma per quanto plausibile, quest’idea è sostanzialmente falsa, come sostiene l’economista liberal Paul Krugman in un editoriale di qualche giorno fa sul “New York Times”. La verità amara è che la società dell’informazione, grazie a software e modelli di gestione sempre più efficienti (nel senso, è ovvio, della massimizzazione dei profitti), insomma a quel complesso di tecniche e modelli di organizzazione che governano l’economia finanziaria del mondo globalizzato, può precisamente fare a meno di una forza lavoro colta e qualificata, formatasi in anni di studi, con background culturali ampi e diversificati. Anziché favorire l’accesso, la competenza risulta paradossalmente un handicap in un mondo in cui i compiti manuali restano indispensabili, anche se sottoposti a una selvaggia competizione, mentre quelli che necessitano di maggiore elaborazione intellettuale risultano i più esposti alla ricerca dell’efficienza e alla tendenza inarrestabile all’outsourcing, alla precarietà, all’irrilevanza. Il caso dei servizi di assistenza tecnica, medica o finanziaria trasferiti in paesi a bassi salari, la scomparsa delle figure professionali intermedie, le tecniche di management che prevedono la continua riduzione degli spazi di autonomia dei lavoratori (e la loro inesorabile colpevolizzazione, come ha ben mostrato Michela Marzano), il sempre minor peso dei titoli di studio nel favorire l’ascesa sociale (a vantaggio, è scontato, dell’origine familiare), sono tutti sintomi di una tendenza che sembra inarrestabile e che colpisce ovunque un secolo di conquiste sociali.

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