Si può intervenire in Libia?

Il Foglio ha chiesto a quattro esperti di analizzare la possibilità e i rischi di un intervento militare per fermare Gheddafi

A fronte delle continue notizie di massacri e violenze che arrivano dalla Libia, si sta facendo strada in Occidente il dibattito sull’eventualità di intervenire per fermare Gheddafi. Ci sono ovviamente vari passi che possono essere fatti prima di arrivare a un intervento armato da parte della NATO o dell’ONU (dalla sospensione della vendita delle armi alla no-fly zone, alle sanzioni economiche), ci sono decine di possibili controindicazioni ma anche qualche significativo argomento (fermare i massacri) e altri precedenti di “ingerenze umanitarie” compiute in casi di violenze di massa, l’ultimo in ex Jugoslavia. Il Foglio ha chiesto un parere a quattro esperti che hanno affrontato situazioni simili in diverse parti del mondo.

Nelle strade di Tripoli, a poche miglia di mare dalle coste italiane, l’esercito della Libia combatte contro i ribelli che vogliono rovesciare il loro rais, Muammar Gheddafi. Per le fonti locali ci sono migliaia di morti, e l’Europa teme l’esodo di un milione e mezzo di migranti. E’ possibile che una coalizione militare intervenga in Libia per fermare gli scontri tra gli uomini rimasti con Gheddafi e i ribelli? Che cosa accadrebbe se l’esercito americano, insieme ad alcuni alleati europei, sbarcasse a Tripoli e prendesse il controllo del paese? Per rispondere a queste domande, e per ipotizzare uno scenario, il Foglio ha discusso con quattro esperti che hanno affrontato situazioni simili in diverse parti del mondo: Gianandrea Gaiani, direttore della rivista Analisi e Difesa ed esperto militare di questo quotidiano; Roberto Martinelli e Luciano Piacentini, due generali dell’esercito italiano; e Nino Sergi, segretario dell’organizzazione umanitaria InterSos.

Primo: per chi si combatte
Piacentini dice che l’ipotesi di una guerra civile dovrebbe essere affrontata da una “forza di interposizione” capace di dividere le parti in lotta. La missione agirebbe su mandato delle Nazioni Unite, con regole di ingaggio molto precise. Meglio, ma non sarebbe facile, se fosse composta da eserciti di paesi arabi, o comunque musulmani. “La presenza di occidentali potrebbe essere usata per alimentare uno scontro di civiltà”, dice il generale. Martinelli esclude la possibilità di un intervento della Nato: nessun paese dell’Alleanza atlantica è direttamente coinvolto in questa guerra. Ma pensa che l’Onu potrebbe girare l’incarico a una coalizione internazionale, guidata magari dall’esercito americano. Potrebbe essere un modo valido per rispondere all’emergenza in tempi rapidi, per arginare il pericolo terrorismo e per fermare il traffico di profughi diretti in Europa.

Secondo: come si costruisce un esercito
La forza potrebbe essere composta da diciotto o ventimila uomini, un numero sufficiente per coprire in modo adeguato l’intera costa della Libia, che è lunga quasi duemila chilometri. Il contingente comprenderebbe soldati americani, britannici, francesi, greci, e turchi. E naturalmente italiani. Il comando della missione dovrebbe essere affidato a un generale a tre stelle americano, ma la base logistica migliore è la Sicilia.
In Sicilia ci sono installazioni militari di prim’ordine, come l’aeroporto di Comiso e la base di Sigonella, che ospita la Sesta flotta della marina americana, spiega Martinelli, non c’è posto migliore per il comando logistico arretrato. La presenza del quartier generale non esporrebbe l’Italia al rischio di ritorsioni. Almeno dal punto di vista militare. “La differenza negli armamenti fra noi e Tripoli è enorme. Nessun missile libico potrebbe arrivare in Italia. Il rischio, semmai, sarebbe il terrorismo”. In questa missione immaginaria, il governo dovrebbe mettere a disposizione tre o quattromila uomini. L’esercito italiano avrebbe un ruolo decisivo nelle operazioni. La fase organizzativa prenderebbe agli alleati una decina di giorni.

Fase uno: doppio sbarco in Libia
Martinelli ha comandato il 187esimo Reggimento paracadutisti della Folgore ed è stato in servizio in Somalia e nei Balcani. In Congo ha comandato il contingente Onu Monuc, nel deserto del Sinai è stato a capo della missione Mfo. Al Foglio dice che pianificherebbe due sbarchi in Libia. Mille uomini delle forze speciali francesi dovrebbero arrivare a Bengasi per prendere il porto e l’aeroporto, mentre altri mille, questa volta italiani, fanno lo stesso a Tripoli. Italiani e francesi sono particolarmente adatti a questo compito perché, grazie alle navi come la Cavour, la Garibaldi e la De Gaulle, hanno elevate capacità marittime. “Se non si incontra resistenza, un gruppo tattico formato da cinquecento uomini può conquistare un obiettivo senza particolari problemi”, spiega il generale. Le notizie in arrivo dalla Libia fanno pensare che le possibilità di un attacco contro i soldati sarebbero basse a Bengasi, la città fortino dei ribelli. Il discorso cambia a Tripoli, dove l’esercito di Gheddafi è ancora forte. Per portare a termine lo sbarco a Tripoli e Bengasi, servirebbero da dieci a quindici giorni.

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