Il dibattito sul culo
Adriano Sofri risponde a Giuliano Ferrara su Ostellino, le donne e Berlusconi
Qualche giorno fa sul Corriere della Sera Piero Ostellino ha scritto un editoriale molto discusso e contestato nel quale diceva, tra le altre cose, che “una donna che sia consapevole di essere seduta sulla propria fortuna e ne faccia – diciamo così – partecipe chi può concretarla non è automaticamente una prostituta”. A quell’editoriale sono seguiti vari commenti dei lettori del Corriere, molti dei quali critici, e addirittura una lettera di protesta firmata da 52 giornalisti del Corriere della Sera. Se n’è discusso parecchio, in questi giorni, e lo stesso Ostellino ha poi replicato ai suoi critici. Oggi Adriano Sofri su Repubblica scrive di questa storia e del relativo dibattito.
Avverto che nelle righe che seguiranno, dedicate alla gara in corso fra l’evoluzione delle cose e delle parole per dirle, sarà ripetutamente impiegato il nome comune: culo. L’appiglio immediato è un bell’articolo, e discutibilissimo, di Giuliano Ferrara sul Foglio, intitolato senz’altro “La libertà cortigiana, il culo di Montaigne e di Ostellino”. Il cui antefatto immediato è in un articolo di Piero Ostellino sul Corriere che, col più anestetico titolo “L’immagine dell’Italia e la dignità delle istituzioni”, difendeva il diritto di “una donna che sia consapevole di essere seduta sulla propria fortuna” a non essere chiamata prostituta. Ostellino stava citando, con una piccola correzione, perché secondo la sentenza originaria ogni donna sta seduta sulla propria fortuna e non lo sa. Il passo avanti starebbe dunque in questa conquistata consapevolezza, che permette di mettere a frutto il tesoro sul quale si sta sedute.
Ma prima di venire a questi ultimi (per ora) capitoli del dibattito, vorrei richiamare la nuova centralità che il culo si era andato guadagnando. Non che fosse mai stato trascurato, ma si ammetterà che a questo punto chi legga su un giornale la parola “c…”, a parte l’ambivalenza, proverà solo un fastidio nei confronti dell’ipocrisia inutile di quei puntini. La parola, e il suo ininterrotto uso augurale, di andarci a fare, viene pronunciata dal palco dell’Ariston come dalle tribune politiche, e aspira anzi a fare da distintivo della liberata società civile. Non può farci impressione, dunque. Al contrario, almeno in un paio di occasioni topiche l’uso della parola ha preso una imprevedibile genialità. Per esempio, quando un signore, membro e anzi nominatore della categoria dei “furbetti del quartierino”, deplorò un tipico modo di procedere come un “fare il frocio col culo degli altri”. Si trattava a quanto pare di un detto popolare romanesco: non l’avevo mai sentito, pur avendo vissuto a Roma negli anni dell’adolescenza, quando (una volta, poi passava) si prova un gran gusto a dire le parolacce sessualmente spinte, dopo aver passato l’infanzia a dire le parolacce legate alle funzioni escretorie. (Nella transizione dall’una all’altra età la parte del corpo di cui parliamo conserva un posto d’onore). Violando ogni correttezza politica, l’espressione aveva però un’efficacia innegabile: era difficile non interrogarsi su quante persone di propria conoscenza si comportassero esattamente così – e magari su se stessi.