“Dentro le aziende nell’università!”

Beppe Severgnini espone il buono del coinvolgere l'industria nella formazione accademica, e contesta i "dogmi pelosi"

A valle dell’approvazione della riforma dell’Università, il dibattito è ancora ricco e sul tema dell’ingresso dei capitali privati oggi interviene Beppe Severgnini, imparziale osservatore di università italiane e straniere, sul Corriere della Sera.

Davanti all’Aula dei Quattrocento, nella romantica e unitaria Pavia, hanno appeso uno striscione giallo: “Fuori le aziende dall’università!”. Domanda: perché? Sono il mostro che vuole divorare il sapere, infilandosi nei consigli di amministrazione? Il seducente vampiro che succhia i brevetti, in una sorta di “Twilight” accademico? Il grifone che artiglia i migliori, e li deposita in azienda, dove rimarranno prigionieri dell’ambizione e dei contributi Inps? Quest’ostilità va spiegata. In un momento di magra e di tagli, rinunciare ad agganciare le università all’economia è una scelta impegnativa. Si può fare, volendo; ma sarebbe meglio non farlo. Quello striscione dovrebbe recitare: “Dentro le aziende nell’università!”. Con regole chiare, paletti evidenti, vantaggi reciproci: ma siano benvenute. Mi dice un’amica biologa (malattie infettive): “Se le industrie interessate alle nostre ricerche non retribuissero i dottorandi, avremmo una soluzione sola: niente dottorati”. Un dottorato costa circa 16.000 euro l’anno: se i soldi non ci sono, i candidati espatriano. L’impressionante sbilanciamento tra dottorandi italiani all’estero e dottorandi stranieri in Italia è dovuto anche a un motivo antico e banale: soldi. L’Associazione Alunni dell’Università di Pavia – di cui ho accettato la presidenza, contravvenendo a una mia regola di vita (niente presidenze, prefazioni, superalcolici e giurie) – intende dare una mano, indirizzando gli aiuti degli ex-studenti.

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