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  • Lunedì 20 dicembre 2010

Cosa è stato il 7 aprile

Evocato maldestramente da Gasparri ieri, non è niente di cui andar fieri

di Filippomaria Pontani

Ieri il sig. Gasparri, nello zelo di prevenire disordini di piazza simili a quelli del 14 scorso, ha invocato contro gli ideatori e i promotori della protesta studentesca provvedimenti che ricalchino quelli del 7 aprile 1979 (invero egli ha detto 1978, ma i lapsus capitano a tutti). Si tratta di affermazioni di una certa importanza, in quanto – è questa una curvatura recentissima della propaganda governativa, che trova interessanti prodromi nelle recenti esternazioni del sig. La Russa – auspicano operazioni di polizia volte a incanalare o sopprimere alcune manifestazioni del dissenso, secondo una prassi non ancora applicata (o almeno non apertamente applicata) nei lunghi anni di egemonia berlusconiana. Sul ripudio della violenza siamo tutti d’accordo: l’essenziale è capire di cosa stiamo parlando.

Qui non si vogliono esprimere giudizi politici (o tanto meno storici) su epoche e vicende che chi scrive non ha vissuto direttamente, limitandosi a vederne i segni e le memorie sulle strade e sui volti di città e di persone che ha conosciuto, nel profondo Nordest. Del resto, il “clima”, l'”atmosfera di quegli anni” et sim., sono entità difficili da comunicare o da riprodurre, e come tali esposti ad ogni sorta di manipolazione interessata, da una parte e dall’altra. Qui si vuole soltanto fornire in mezza pagina un riassunto di cosa è stato davvero il Sette Aprile, nella speranza che altri condividano (con me ma anche con Amnesty International, che si è occupata del caso) l’impressione che si sia trattato di un momento ben poco luminoso della nostra storia recente, o meglio dell’esito di un teorema investigativo e giudiziario costruito ad hoc per eliminare voci di dissenso che (curiosamente, anche allora) albergavano nelle aule universitarie e nel dibattito civile e culturale dell’epoca: parliamo del gruppo di Autonomia Operaia, del giornale Autonomia, di radio Sherwood, della campagna di informazione contro l’industria nucleare, dei dibattiti sull’ecologia e il Vajont, degli studi scientifici (internazionalmente riconosciuti) sulle trasformazioni sociali e politiche dell’Italia e dell’Europa, di una dimensione di “insegnamento partecipato” radicalmente nuova per l’accademia di allora. Chi voglia documentarsi meglio può leggere il volumetto edito nel 2009 da manifestolibri: Processo sette aprile. Padova trent’anni dopo – Voci della città “degna”, dove troverà non solo le testimonianze dei superstiti, ma anche quelle di magistrati come Giovanni Palombarini o di attuali aspiranti terzopolisti come Massimo Cacciari.

Il 21 marzo 1979 venne inaugurata l’applicazione politica del reato di “associazione per delinquere”, di norma riservato alle inchieste di mafia: l’accusa sulla cui base pochi giorni dopo (il 7 aprile appunto) il pm padovano Pietro Calogero promulgò 21 mandati di cattura per i principali esponenti di Potere Operaio, tra i quali molti docenti della facoltà di Scienze Politiche (i cosiddetti “cattivi maestri”; ve ne erano anche a Fisica e Ingegneria), fu quella di avere «organizzato e diretto un’associazione denominata Brigate Rosse, costituita in banda armata con organizzazione paramilitare e dotazione di armi, munizioni ed esplosivi, al fine di promuovere l’insurrezione armata contro i poteri dello Stato». Tra i capi d’imputazione più rilevanti ed eclatanti nei confronti di Toni Negri (il più in vista degli arrestati) vi fu quello di essere stato telefonista delle BR durante il sequestro Moro. Altri arresti si ebbero nei restanti mesi del 1979, da giugno a dicembre, e ancora nel 1980. In tutto, agli imputati furono comminati quasi 300 anni di carcerazione preventiva.

Il processo, per via dell’interferenza con le inchieste sulle BR, fu in parte trasferito a Roma. Le accuse di Calogero, pur accolte nel processo romano di primo grado del 1984, caddero quasi del tutto nell’appello del 1987: ne rimasero, argomentati sulla base di fattispecie assai dubbie, i 12 anni per Toni Negri (in primo grado erano 30: Negri, com’è noto, andò esule in Francia, donde tornò a scontare la pena residua nel 1997) e altre condanne minori per presunti reati connessi. Nel troncone padovano il processo di primo grado portò direttamente all’assoluzione di tutti gli imputati il 30 gennaio del 1986 (quasi sette anni dopo gli arresti): tra gli assolti vi furono anche i coimputati di Pietro Greco (detto Pedro), che nel frattempo il 9 marzo 1985, da latitante, era stato ucciso a Trieste da agenti della Digos e del Sisde. Il crollo del cosiddetto “teorema Calogero” fu ulteriormente e definitivamente sancito dalla sentenza d’appello presso la Corte di Venezia nel marzo 1988.

Tra le caratteristiche del 7 aprile vi fu – cosa relativamente nuova per l’epoca – la gogna mediatica: i giornali non si risparmiarono titoli cubitali del tipo “Scoperti ed arrestati gli assassini di Moro”, e sopirono d’un balzo l’eco del delitto Pecorelli di qualche settimana prima; pochissimi furono coloro che rimasero lucidi, tra loro alcuni del Manifesto e, a Repubblica, il solo Giorgio Bocca. Il resto appartiene – come oggi con l’uomo politico evocato in apertura – piuttosto al reame del grottesco: i fotomontaggi, i goffi tentativi di smontare gli alibi, le improbabili perizie foniche sulle telefonate dei carcerieri di Moro (si scoprirà a posteriori che la voce era quella di Valerio Morucci), la mediocrità professionale degli esecutori giudiziari e polizieschi.

Non si vuole qui sottacere una qualche compromissione di certe frange dell’Autonomia padovana con la violenza (furono compiuti o appoggiati espropri proletari nei supermercati, e su altre azioni si potrebbe discutere) né si vuole tacere l’assoluta – e giudiziariamente comprovata – difformità di simili azioni isolate rispetto al piano di «insurrezione armata contro i poteri dello Stato» attribuito alle BR. Non si vuole omettere un omaggio al ruolo del Partito Comunista, che collaborò attivamente alla damnatio di tutti coloro che agivano alla sua sinistra, specie in una città come Padova, dove il fermento autonomista palesemente intaccava lo spazio politico che il PCI sentiva come proprio. Non si vuole nemmeno (e nemmeno per idea) suggerire che tutti dovrebbero essere grati all’elaborazione teorica dell’autonomia padovana, la cui morte improvvisa ha lasciato autostrade aperte a una deriva ideologica che troppe volte denunciamo: sulle idee, va da sé, ciascuno è libero di dissentire anche in modo acceso, e le analisi di Toni Negri (fatte proprie in ogni parte del mondo dal movimento “no-global”) convinceranno alcuni e faranno inorridire altri: è sacrosanto che sia così.

Qui si vuole soltanto segnalare che uno Stato che per bocca del suo governo invoca (foss’anche in nome dei principi più alti) il ripetersi di un’azione repressiva fondata su accuse che sono state ampiamente e unanimemente dimostrate come false e tendenziose, e che nella foga di trovare colpevoli hanno provocato molte vittime de facto innocenti (o comunque estranee alle imputazioni loro contestate), non può dirsi uno Stato pienamente libero.