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  • Lunedì 25 ottobre 2010

È dura essere Julian Assange

C'è chi vede il fondatore di Wikileaks come un difensore della libertà, chi come un pericolo pubblico

Julian Assange è l’uomo che sta dietro Wikileaks. Australiano, 39enne, considerato da alcuni un difensore della libertà di stampa e da altri un pericolo pubblico, considera se stesso indispensabile per la sopravvivenza del sito internet che, uno scoop dopo l’altro, sta facendo parlare di sé da mesi pubblicando materiale riservato di ogni genere. «Io sono il cuore e l’anima di questa organizzazione, il suo fondatore, filosofo, portavoce, sviluppatore, organizzatore, finanziatore, e tutto il resto».

A tre giorni dalla pubblicazione di quasi 400mila documenti riservati sulla guerra in Iraq — e a tre mesi da quella dei Diari della Guerra afghani — il New York Times ha incontrato Assange in un ristorante etiope di Paddington, a Londra, per cercare di capire meglio i contorni della sua figura misteriosa e sfuggente. L’attacco dell’articolo illustra perfettamente le ansie e le paranoie — giustificate o meno è difficile saperlo — del fondatore di Wikileaks.

Parla a bassa voce, sussurra quasi, per eludere i servizi di intelligence occidentali di cui ha paura. Pretende che i suoi soci — che sono sempre meno — usino costosi cellulari criptati e cambia il suo con la stessa frequenza con cui gli altri uomini cambiano camicie. Prenota gli alberghi sotto falso nome, si tinge i capelli, dorme sui divani e sui pavimenti, usa contanti e non carte di credito, spesso presi in prestito da amici.

Assange ha fondato Wikileaks nel 2006 dopo una carriera da hacker informatico — un genio, secondo gli amici — e dopo aver evitato solo per poco la prigione, in seguito a una condanna per 25 accuse di diversi crimini informatici. Durante i primi anni del sito era rimasto nell’ombra, e nessuno sapeva chi fosse dietro al sito che preoccupa i governi di ogni parte del mondo. Assange ha poi deciso di venire allo scoperto, e da allora la sua vita si è trasformata in un’infinita fuga dai servizi segreti, che starebbero continuamente cercando di intercettarlo e ostacolarlo. In un recente spostamento da Stoccolma a Berlino, uno dei suoi bagagli e tre computer criptati imbarcati sul suo aereo sono spariti, e il fondatore di Wikileaks sospetta che dietro ci sia l’intelligence di qualche governo.

In diverse nazioni Assange non è più ben accetto, e la sua situazione si è fatta sempre più complicata. Sotto la legge britannica il suo passaporto australiano gli permette di rimanere nel paese per altri sei mesi, al termine dei quali dovrà capire cosa fare. Anche l’Islanda — una specie di paradiso giornalistico in cui il lavoro della stampa viene particolarmente protetto — non dà più sicurezze ad Assange, che la considera troppo soggetta alle influenze di Washington, come la Gran Bretagna. Anche la patria di Assange, l’Australia, ha dato segnali ostili facendo capire di essere pronta a collaborare con gli Stati Uniti, che dopo la pubblicazione dei documenti sull’Afghanistan stanno cercando di bloccare il lavoro di Wikileaks valutandolo sotto la legge sullo spionaggio del 1917 con l’accusa di aver messo in pericolo militari e civili pubblicando tutti i materiali riservati in suo possesso, senza discriminazione. In seguito alla diffusione dei diari della guerra un portavoce dei talebani afghani, sotto lo pseudonimo Zabiullah Mujahid, ha annunciato la creazione di una commissione atta a catalogare tutti i nomi presenti nei rapporti, per poi confrontarli con quelli di una lista di “ricercati” afghani, e “dopo che il procedimento sarà finito, la corte talebana deciderà cosa fare di queste persone”.

La mossa di pubblicare tutti i documenti senza eliminare i nomi delle fonti afghane e dei soldati coinvolti non è stata criticata solo dal governo americano, ma anche da amici di Wikileaks, tra cui Amnesty International, Reporter Senza Frontiere, vari membri del parlamento islandese e volontari interni all’organizzazione. Sembra che Assange stia pian piano perdendo parecchi dei suoi sostenitori, che stanno iniziando a criticarne l’autoritarismo crescente, di cui il New York Times elenca diversi esempi.

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Abbiamo parlato con decine di persone che hanno lavorato con lui e lo hanno sostenuto in Islanda, Svenzia, Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti. Ne è emersa la figura di un innovatore carismatico che, con l’aumento della popolarità, ha acquisito un modo di fare dittatoriale, eccentrico e capriccioso.

In uno scambio online con uno dei volontari ottenuto dal quotidiano statunitense, Assange dice esplicitamente che senza di lui Wikileaks si disintegrerebbe: “Per qualche mese ci troveremo in una situazione di Unità o Morte”, ha scritto. Alle domande di un volontario e attivista islandese di 25 anni, Herbert Snorrason, ha risposto «non mi piace il tuo tono. Se continui così, sei fuori. Se hai un problema con me, dovresti andartene». Smari McCarthy, un altro volontario islandese, ha detto che «circa una decina» di colleghi disillusi se ne sono andati recentemente e molti altri li seguiranno, in seguito ai comportamenti e alle decisioni di Assange, che poco tempo fa ha sospeso il portavoce tedesco di Wikileaks, Daniel Domscheit-Berg, per “cattiva condotta”. Assange afferma che, a parte Domscheit-Berg, nessun altro volontario di rilievo ha lasciato l’organizzazione, ma è anche vero che Wikileaks è (o almeno dice di essere) composto da un nucleo di solamente 40 persone, oltre agli 800 membri non pagati sparsi per il mondo che si occupano di “frammentare” il lavoro dei server del sito e rendere sicuro il sistema contro possibili attacchi.

Alla sua immagine non ha giovato l’accusa di molestie sessuali che gli hanno mosso due donne svedesi lo scorso agosto che, nonostante per ora si sia risolta in un nulla di fatto, non è ancora stata definitivamente archiviata dai procuratori. E non hanno giovato nemmeno certi suoi atteggiamenti infastiditi nei confronti della stampa e delle domande, di cui ha dato esempio ieri, alzandosi e andandosene durante un’intervista a CNN.

Assange ha, ovviamente, ancora molti sostenitori. Tra quelli illustri c’è Daniel Ellsberg, l’uomo che nel 1971 diffuse i cosiddetti Pentagon Papers, documenti riservati sulla guerra in Vietnam degli Stati Uniti. «Ho aspettato quarant’anni che arrivasse qualcuno in grado di diffondere informazioni su scala mondiale, qualcuno che potesse fare la differenza», ha detto Ellsberg prendendo le difese di Assange e di Bradley Manning, il 22enne dell’esercito americano arrestato con l’accusa di aver passato i documenti afghani a Wikileaks. «Sono disposti a finire in prigione per il resto della loro vita, o a essere uccisi, per far venire alla luce queste informazioni».

E non è detto che finire in prigione sia necessariamente un male, ha confessato Assange a John Burns del New York Times: «Quanto arrivi al punto di sperare, qualche volta, di finire in prigione per avere la possibilità di passare un’intera giornata a leggere un libro, capisci che la situazione è diventata più stressante di quanto vorresti».

L’intervista di Luca Sofri a Julian Assange
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