L’Europa è noiosa

L'Economist spiega perché all'Italia non frega molto dell'UE, e viceversa

Lo dice l’Europa. Lo vuole l’Europa. L’ha deciso l’Europa. Solitamente i politici italiani utilizzano questo genere di formule quando vogliono scaricare verso l’esterno la responsabilità di una misura particolarmente impopolare, sia questa l’aumento dell’età pensionabile o una legislazione più severa sui rapporti tra stato e imprese. L’abuso di queste giustificazioni rappresenta anche un indicatore del rapporto che la maggior parte degli italiani nutre nei confronti dell’Europa, e contribuisce forse a spiegare perché nonostante le dimensioni della sua economia l’Italia continui a rivestire un ruolo più che marginale all’interno delle istituzioni europee.

Questa almeno è la tesi dell’Economist, che questa settimana dedica la rubrica di cose europee Charlemagne proprio al rapporto tra Italia e Unione Europea: un tema discusso e sviscerato in mille altre occasioni, negli ultimi anni, al quale però l’Economist offre un contributo valido per sintesi ed efficacia.

L’Italia è stata uno dei fondatori dell’organizzazione che poi è diventata l’Unione Europea, e il trattato fondativo di questa organizzazione è stato firmato a Roma. L’economia italiana è grande il doppio di quella polacca, la sua popolazione vale più o meno quella della Francia o della Gran Bretagna. Eppure raramente ha rappresentato una forza decisiva dentro l’Unione. Perché? Una risposta può essere il rapporto idiosincratico di Berlusconi con la politica estera. Ma gli scarsi risultati ottenuti dall’Italia in Europa risalgono a ben prima dell’ascesa al potere di Berlusconi.

L’Economist osserva come gli italiani – al contrario di quel che vale per gli inglesi, i francesi e sempre più anche per i tedeschi – non vedono l’Unione Europea come un arena all’interno della quale le nazioni confrontano e risolvono i propri interessi e i loro conflitti. Al contrario, l’Europa in Italia è vista come se fosse da qualche altra parte: magari come un supplemento o un surrogato del proprio governo, che è ontologicamente brutto e deludente. Unite questo a quanto descritto all’inizio del pezzo, cioè la tendenza dei politici a scaricare sull’Europa le responsabilità di decisioni impopolari, e avrete un bel ritratto di quella che l’Economist definisce “visione utilitarista” dell’Europa.

Il paradosso è che, al contrario di quel che si è soliti dire riguardo la proverbiale furbizia degli italiani, secondo l’Economist questo atteggiamento si accompagna a un idealismo ingenuo, quasi candido. Di fatto, l’Italia in Europa non gioca sporco quasi mai.

È rarissimo che l’Italia sia coinvolta in accordi sottobanco con gli altri paesi, che invece ne fanno in abbondanza per scambiarsi favori e aiutarsi reciprocamente. E altrettanto raramente l’Italia ha fatto valere la sua influenza mettendo il veto su una decisione. L’unica eccezione del recente passato è arrivata nel 2008, quando il governo italiano si oppose alla risoluzione di condanna unanime della Russia per via della sua invasione della Georgia.

E Russia vuol dire Vladimir Putin, ossia uno dei principali partner politici di Berlusconi, che non a caso si trovano tutti fuori dall’Europa: in Bielorussia, in Libia, negli Stati Uniti, in Turchia. In Europa ci si annoia. Se l’Italia snobba i suoi omologhi europei, la conseguenza non può che essere che questi snobbino l’Italia. E anche qui ci sono molti esempi e precedenti.

È incredibile il fatto che l’Italia sia praticamente l’unico paese europeo a non avere alleanze stabili all’interno dell’Unione, nemmeno con gli altri stati mediterranei. Fino a poco tempo fa le sue posizioni ai negoziati, nei casi in cui c’erano, erano state elaborate dai suoi funzionari a Bruxelles, spesso alla vigilia delle riunioni del consiglio: mai dal governo, mai dal parlamento, che non controllano adeguatamente l’impatto interno delle politiche comunitarie.

Naturalmente le cause di questo fenomeno risiedono anche nei caratteri peculiari e storici della politica italiana, come descrive un saggio della studiosa Federiga Bindi citato dall’editoriale dell’Economist: l’instabilità dei governi, l’estrema conflittualità anche tra partiti alleati, il fallimento dei tentativi di prendere esempio da quanto accade all’estero e la generale mancanza di interesse nei confronti dell’Europa. Da qualche tempo, scrive l’Economist, le cose sembrano migliorare lievemente, non fosse altro che per la relativa stabilità garantita dai governi di Berlusconi lungo gli ultimi anni. Ma ci sono altri problemi.

Qui l’Economist cita Tommaso Padoa-Schioppa (ve lo ricordate? Faceva il ministro dell’economia l’ultima volta che ha governato il centrosinistra), che una volta ha notato come la lingua italiana ha una sola parola per descrivere due concetti diversi, che in inglese si descrivono attraverso due parole diverse: policy e politics. Sintetizzando brutalmente, per policy si intendono le misure concrete, le cose da fare, le soluzioni ai problemi. Per politics si intendono le cose che si fanno per raggiungere quei risultati: i discorsi pubblici, le trattative, i compromessi, le alleanze. Solitamente, scrive l’Economist, ci si occupa di politics nelle campagne elettorali e di policy tra le campagne elettorali. In Italia il tutto si descrive con una parola sola, politica, proprio perché la politics di fatto non si ferma mai, lasciando la policy a bordo campo. E quindi l’Europa perde interesse, trattandosi di un posto in cui si fa molta policy ma i cui risultati difficilmente sono monetizzabili in patria.

Anche per questa ragione i politici italiani sono poco interessati alle posizioni di vertice delle istituzioni europee. Le vedono al massimo come modi ben pagati per allontanarsi dall’arena politica interna per preparare un rientro in grande stile. È quello che fece Romano Prodi, presidente della Commissione europea tra il 1999 e il 2004, che passò la maggior parte del suo ultimo anno in carica a progettare il suo ritorno nella politica italiana.

Il saggio di Federiga Bindi ricorda a questo proposito di quando, tre anni fa, il parlamento europeo approvò il taglio del numero degli eurodeputati spettanti all’Italia alle successive elezioni. Dov’erano gli eurodeputati italiani, quelli che avrebbero dovuto difendere gli interessi di rappresentanza del loro paese? Fuori dall’aula, al telefono, alle prese con l’ultima delle polemiche occorse nella loro politica interna.

L’Italia sembra ferma all’era dei guelfi e dei ghibellini, in cui la vittoria della propria fazione sull’altra importa più di ogni altra cosa, anche a costo di danneggiare il paese.