I tre amigos

Politica significa scendere a patti col diavolo o addirittura con Di Pietro. Non esiste passato, non esiste memoria: altrimenti mettere insieme tre personaggi come loro – Antonio Di Pietro, Giuliano Pisapia e Bruno Tabacci – risulterebbe impossibile. È vero, alla fine l’Italia dei valori non è entrata nella giunta milanese: ma spunteranno altri incarichi, perché la politica è questo. Resta da chiedersi: ma come fanno? Non si fa politica col risentimento, è vero, ma lo stesso: come fanno?

Cominciamo con Bruno Tabacci, uno che a poco più di trent’anni dirigeva l’ufficio studi del Ministero dell’Industria e in seguito ha diretto la segreteria tecnica del Ministero del Tesoro. Dal 1987 al 1989 è stato presidente della Regione Lombardia e ha affrontato brillantemente l’emergenza dell’alluvione in Valtellina, poi è arrivato Di Pietro e gli ha rovinato la vita. No, non solo con Mani pulite: prima ancora. Nel 1989 Tabacci fu indagato nella cosiddetta inchiesta «Oltrepò Pavese» (che verteva su anomale distrazioni della Protezione Civile a favore di un centinaio di parroci) ma dopo un po’ di frittura fu prosciolto una prima volta. Però aveva già tratto un’impressione precisa: «Di Pietro», disse, «era ansioso di utilizzare le inchieste anche per la pubblicità che gliene derivava sui giornali. Un furbo. Ho scoperto dopo che le mie frequentazioni milanesi erano più prudenti delle sue».

Poi, eletto deputato nell’anno di Mani pulite, la procura di Mantova notificò a Tabacci quattro avvisi di garanzia, e chiese anche l’autorizzazione per arrestarlo: per scongiurare che scattassero le manette dovette intervenire il pidiessino Giovanni Correnti. Ma nel 1996 Tabacci fu prosciolto ancora. Poi, nella primavera 1993, riecco Di Pietro a chiedere l’autorizzazione a procedere sempre contro di lui: ricettazione e finanziamento illecito dei partiti. E Tabacci, nel marzo 1996, fu assolto anche per questi due reati. Morale: per colpa di Di Pietro era stato decapitato come presidente della regione Lombardia, come segretario regionale della Dc e come aspirante ministro: anzi, a margine dell’ultimo proscioglimento, nel 1996, Tabacci dovette avvedersi che ministro, semmai, era divenuto il suo accusatore. Ecco: come fanno? Come fa, lui, a stare dalla stessa parte di uno come Di Pietro? Come è possibile che nel gennaio 2008, a proposito di nuovi partiti, si leggesse addirittura di una fantomatica «cosa bianca» condivisa da Tabacci e Di Pietro?

Poi c’è Giuliano Pisapia, che non era soltanto l’avvocato di Tabacci: era e resta un garantista coi fiocchi, figlio di quel professor Giandomenico Pisapia che era stato relatore del nuovo Codice Penale varato nel 1989. Doveva essere una rivoluzione copernicana, quel Codice: nelle intenzioni si proponeva la terzietà del giudice, la pari dignità giuridica tra accusa e difesa, la custodia cautelare come extrema ratio, la segretezza delle indagini, la pubblicità del processo, soprattutto la prova e il contraddittorio che dovevano formarsi rigorosamente in aula.

E chi è stato il prim’attore nello stravolgimento del Nuovo Codice, simbolicamente ma anche praticamente? Lui, quel Di Pietro che Pisapia aveva già conosciuto quando istruiva sconosciutissime indagini sulle messaggerie telefoniche del Videotel: «Di Pietro», ha raccontato Pisapia, «fece scattare un grosso blitz: senza seguire le regole, alcune persone, anziché essere invitate a comparire come previsto dal Nuovo Codice, furono prelevate alle 6 di mattina e portate non in Procura ma nella sede della Criminalpol, e interrogate con modalità non conformi al Codice, nella convinzione che questo modo choccante di interrogare favorisse la racconta di dichiarazioni utili». Un’inchiesta finita in nulla.

Poi lo aveva incontrato ancora nell’inchiesta cosiddetta Patenti facili, un’istruttoria estenuante durante la quale Di Pietro chiese assoluzioni e derubricazioni per gli stessi reati che pure gli avevano consentito arresti di massa. Disse Pisapia: «L’ho conosciuto all’interrogatorio di un’anziana titolare di una scuola guida che era stata convocata a piede libero ma con modalità estranee al Codice, e cioè non con un formale invito a comparire in Procura ma con una telefonata e in una caserma della polizia stradale. Pochi giorni dopo ho ritrovato Di Pietro all’interrogatorio di un funzionario della Motorizzazione civile, arrestato. Tutte e due furono prosciolti: la donna già alla fine delle indagini preliminari, l’uomo in appello, dopo aver scontato numerosi mesi tra carcere e arresti domiciliari. Da subito emerse chiaramente la sua concezione dell’arresto o della minaccia all’arresto, troppo spesso finalizzato alla ricerca della prova, della confessione».

Ora quell’uomo è suo alleato politico, suo e di Bruno Tabacci. Non esiste passato, non esiste memoria.

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera