Approvare la legge di bilancio nel caos non è sempre stata la prassi
Ritardi e forzature sono diventate un'abitudine dal 2018, e puntualmente chi criticava dall'opposizione ha fatto lo stesso

Nel 2019 successe una cosa piuttosto anomala. Il governo di centrosinistra di Giuseppe Conte, dopo aver gestito con parecchio affanno la definizione della legge di bilancio, costrinse la Camera dei deputati a discutere il testo della manovra finanziaria, approvata dal Senato il 17 dicembre, tra il 22 e il 24 dello stesso mese. Fu un dibattito contenuto nei tempi, svolto a ridosso di Natale, e con la consapevolezza che il testo non poteva in alcun modo essere modificato.
I deputati del centrodestra denunciarono questa procedura come «illegittima», «scandalosa», «inaccettabile». I più determinati nella critica furono quelli di Fratelli d’Italia, per i quali la mancata discussione della legge di bilancio in entrambi i rami del parlamento costituiva un «precedente pericoloso». «Io penso che mai come questa volta si sia raggiunto un limite oltre il quale non si poteva e non si doveva andare», disse in aula Tommaso Foti, attuale ministro per gli Affari europei.
Giorgia Meloni, allora leader di un piccolo partito di opposizione (sempre Fratelli d’Italia, che però in quel periodo aveva tra il 4 e il 5 per cento), tenne un discorso a suo modo memorabile: «Democrazia parlamentare significa che il parlamento decide, democrazia parlamentare significa che il parlamento è centrale. E, di grazia, posso chiedervi dov’è la democrazia parlamentare nel momento in cui il parlamento non può discutere la legge di bilancio, che vi segnalo essere la prima prerogativa dei parlamenti dalla fine delle monarchie assolute e, quindi, più o meno, dal XVII secolo? Perché, se al parlamento gli togliete la legge di bilancio, vi comunico che la democrazia parlamentare non c’è e non c’è nemmeno il parlamento».
Da allora quell’anomalia è diventata la prassi. Ed è il motivo per cui quel discorso così accalorato di Meloni viene oggi rinfacciato alla presidente del Consiglio dagli esponenti del centrosinistra. Anche quest’anno la legge di bilancio ha seguito questo stesso iter abnorme: il Senato la ha approvata il 23 dicembre, dopo molte convulsioni nella maggioranza e dopo che il governo ha più volte modificato in modo sostanziale il testo fino all’ultimo momento utile. Dopodiché, è iniziata la procedura surreale alla Camera.
Gli uffici tecnici di Montecitorio hanno elaborato, d’accordo col ministero dell’Economia, un dossier di 106 pagine per consentire ai deputati di studiare il contenuto della manovra. Le opposizioni hanno presentato 949 emendamenti alla commissione Bilancio, incaricata di discutere il provvedimento. Nel frattempo, le altre 13 commissioni permanenti sono state chiamate a esprimere un proprio parere sulle materie di loro competenza. Nessuno ovviamente ha avuto davvero il tempo di leggere, approfondire, esprimere dubbi.
Domenica, dalle 10:30 a metà pomeriggio, la commissione Bilancio ha discusso e votato gli emendamenti, bocciandoli in modo sommario. Era tempo perso, e lo sapevano tutti: nessuna modifica, neppure la più marginale, sarebbe stata ammessa dal governo, altrimenti la manovra sarebbe poi dovuta tornare al Senato per una terza e definitiva approvazione, e non ci sarebbe stato modo di farlo entro il 31 dicembre. La legge di bilancio va approvata entro la fine dell’anno: altrimenti si applica il cosiddetto esercizio provvisorio, per cui il governo, in buona sostanza, non può autorizzare nuove o diverse spese rispetto a quelle sostenute nell’anno precedente. Se i deputati di opposizione hanno presentato comunque degli emendamenti, dunque, è solo per testimoniare un loro impegno su certi argomenti, o per poter alimentare polemiche.
Poi uno dice la deforestazione dell’Amazzonia.
Questa (solo una piccolissima parte de) la carta stampata per la lettura parlamentare della Legge di Bilancio alla Camera.
Tutto, assieme al lavoro di centinaia di funzionari e impiegati, assolutamente per l’anima dell’organo… pic.twitter.com/5GOIMm0wYj
— Luigi Marattin (@marattin) December 28, 2025
Dopodiché, quando il provvedimento è stato trasmesso all’aula, dopo appena 3 ore di discussione generale, il governo ha posto la questione di fiducia: per cui, dopo 24 ore di sospensione dei lavori, l’aula ha dovuto votare il testo così com’era, con un esito scontato (se fosse mancata la maggioranza in un voto su cui era stata posta la fiducia, sarebbe caduto il governo). Infine, i deputati hanno dovuto discutere e votare 239 ordini del giorno, cioè gli atti con cui il parlamento esorta il governo a prendere certe decisioni, ma in modo non vincolante. Martedì 30 dicembre questo iter lungo e travagliato si è chiuso con l’approvazione definitiva da parte della Camera.
Non è sempre andata così. Anzi, per certi versi, il caos e le forzature istituzionali intorno all’approvazione della manovra sono una consuetudine abbastanza recente. Solo per stare agli ultimi vent’anni, le leggi di bilancio sono sempre state discusse e modificate da entrambe le camere tra il 2006 e il 2017, tranne nel 2010 (quando però il governo Berlusconi decise di non modificare la manovra approvata dalla Camera il 19 novembre per motivi politici, non per mancanza di tempo) e nel 2011 (quando tutto avvenne nel contesto convulso della crisi del governo Berlusconi e dell’entrata in carica di quello di Mario Monti, chiamato a fronteggiare in modalità emergenziali una pericolosa crisi finanziaria).
Anche quando caddero governi a ridosso dell’approvazione della legge di bilancio, come avvenne nel 2016 dopo le dimissioni di Matteo Renzi il 7 dicembre, ci furono accordi con le opposizioni per garantire a entrambe le camere di discutere la manovra.

Matteo Renzi e Paolo Gentiloni, insieme a Maria Elena Boschi, durante la cerimonia del passaggio di consegne della presidenza del Consiglio, il 12 dicembre 2016 (Roberto Monaldo/LaPresse)
Proprio il 2016 è peraltro un anno significativo, in questo discorso. La riforma costituzionale promossa dal governo Renzi, e bocciata dal referendum, prevedeva infatti il superamento del bicameralismo paritario (cioè il principio per cui la Camera e il Senato devono approvare entrambi le stesse leggi nella medesima, identica forma) e avrebbe reso il Senato una camera con funzioni e prerogative assai più limitate di quelle attuali. Da allora, il monocameralismo escluso dalla legge (e bocciato dal referendum) iniziò a essere esercitato di fatto, proprio sul provvedimento più importante sottoposto al vaglio del parlamento, e cioè la legge di bilancio.
Nel 2017, col governo di centrosinistra di Paolo Gentiloni, si mantenne in effetti la stessa prassi virtuosa fin lì osservata, con entrambe le camere pienamente coinvolte nella discussione e nell’approvazione della manovra.
Dal 2018 però cominciarono i problemi. Quell’anno il governo populista di Giuseppe Conte, sostenuto da Lega e Movimento 5 Stelle, dopo aver condotto in modo scombiccherato una lunga trattativa con la Commissione Europea, fu costretto a rivedere in modo sostanziale l’impianto della legge di bilancio inizialmente presentata, quella approvata dalla Camera l’8 dicembre.
Quando il testo arrivò al Senato iniziarono i ripensamenti del governo, che poco prima del voto decisivo presentò un maxi-emendamento di 270 pagine, composto da 1.100 commi, che la commissione Bilancio ebbe un paio d’ore per leggere e studiare. Sia i senatori di maggioranza sia quelli di opposizione si trovarono a dover votare un provvedimento che non conoscevano, diverso da quello che avevano discusso inutilmente per giorni. E anche la Camera, a quel punto, dovette confermare il voto su quella manovra riscritta all’ultimo minuto senza alcuna possibilità di modifica.
La forzatura del governo apparve così clamorosa che i senatori del PD, guidati da Dario Parrini, fecero ricorso alla Corte costituzionale. L’anno seguente, quando il PD andò al governo con il Movimento 5 Stelle nel Conte II, fu un suo ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, a imporre di fatto una forzatura analoga, quella contro cui si scagliò con veemenza Meloni, che ora che è al governo segue le stesse pratiche. Tutto ciò dimostra una certa trasversale ipocrisia e un’incoerenza bipartisan, da parte dei partiti e dei leader politici.
Lo svilimento delle prerogative del parlamento intorno alle manovre finanziarie riflette del resto una dinamica assai più vasta e ormai consolidatissima: il monocameralismo di fatto, appunto, e cioè quel fenomeno per cui una sola camera discute davvero, e modifica, un provvedimento, mentre l’altra si limita a ratificare. Secondo il Comitato per la legislazione della Camera, in questa legislatura oltre il 90 per cento delle leggi è stato approvato in regime di monocameralismo di fatto; e la percentuale è ancora più alta (100 per cento) se si considerano i soli decreti-legge, quelli approvati dal governo per più o meno evidenti ragioni di emergenza.
Non è una prassi introdotta dal governo Meloni, che ha semmai acuito delle storture già da tempo in voga: nella precedente legislatura, quasi l’80 per cento delle proposte di legge di iniziativa parlamentare e il 95 per cento dei decreti-legge avevano seguito lo stesso iter.



