L’Arabia Saudita non ha mai eseguito così tante condanne a morte
Nel 2025 sono state 347, due in più che nel 2024, con continue violazioni dei diritti umani

Nel 2025 l’Arabia Saudita ha eseguito 347 condanne a morte, il numero più alto da quando organizzazioni internazionali e non governative hanno iniziato a tenere il conto. È la conferma di un ricorso alla pena di morte sempre più frequente: il dato record precedente (345) era del 2024. La gran parte delle condanne è stata eseguita per reati comuni legati alla droga, e fra le persone uccise ci sono anche un giornalista e alcuni dissidenti. L’ong Human Rights Watch (HRW) ha definito la situazione del rispetto dei diritti umani «disastrosa» e il sistema giudiziario non rispettoso dei principi fondamentali dello stato di diritto e degli standard internazionali in materia di diritti umani.
Da quando nel 2017 è diventato leader di fatto dell’Arabia Saudita, il principe ereditario Mohammed bin Salman ha cercato di presentare il paese come più moderno e moderato, per esempio favorendo la partecipazione delle donne alla vita sociale e al mondo del lavoro e rendendo meno rigidi i divieti sull’alcol. Allo stesso tempo ha continuato a controllare il potere giudiziario in modo dispotico, soprattutto per quel che riguarda i reati legati alla droga, e ha represso con violenza ogni tipo di dissenso.
Le violazioni dei diritti umani, denunciate da molte organizzazioni e raccontate in molte testimonianze, non hanno creato grandi problemi politici a bin Salman. Lo scorso novembre il presidente statunitense Donald Trump lo ha accolto alla Casa Bianca con tutti gli onori, e in generale tutti i paesi occidentali fanno affari con l’Arabia Saudita, diventata un paese importante nei campi dell’intrattenimento e dello sport: tra le altre cose le è stata assegnata l’organizzazione dell’edizione 2034 dei Mondiali maschili di calcio, e nei giorni scorsi si sono giocate in stadi sauditi le partite della Supercoppa italiana. Nell’ultimo decennio si è garantita anche un ruolo rilevante a livello diplomatico, in Medio Oriente e non solo, sfruttando le enormi ricchezze provenienti dalle sue ingenti riserve di petrolio.

Il Faisaliah Center, uno dei grattacieli di Riyad (AP Photo/Amr Nabil)
Nel campo dei diritti umani e delle garanzie di un giusto processo invece non ci sono stati passi in avanti. Nel mondo solo Cina e Iran eseguono più condanne a morte. Secondo la legge saudita ogni esecuzione deve essere approvata dal re o dal principe ereditario.
L’ong Reprieve, con sede nel Regno Unito, ricostruisce e certifica le esecuzioni in Arabia Saudita, grazie a contatti con le famiglie dei condannati ma anche con i prigionieri nel braccio della morte (ossia che attendono di essere uccisi). Secondo i suoi dati due terzi dei condannati sono stati uccisi per reati “non letali” legati alla droga; la metà erano stranieri; 96 hanno ricevuto la pena di morte per crimini che riguardavano il solo hashish; cinque sono donne. Ci sono alcuni casi estremi, come quelli di un uomo yemenita e una donna saudita condannati per aver rapito neonati e condotto «opere di stregoneria», o quella di due ragazzi uccisi per aver partecipato a una protesta quando erano minorenni.
Le condanne per “terrorismo” sono numerose e la definizione viene usata per includere un po’ tutto: ogni forma di dissenso, anche espresso pacificamente o solo sui social network, può portare ad arresti, torture e condanne a morte. Spesso nei processi le confessioni estorte con la tortura sono l’unica prova usata per emettere la sentenza.
A giugno è stata eseguita la condanna di Turki al Jasser: era uno scrittore, giornalista e blogger. Scriveva prima per il giornale Al-Taqreer, chiuso dalle autorità nel 2015, poi sul profilo Twitter (ora X) “Kashkool”, attraverso cui denunciava corruzione e violazioni dei diritti umani da parte della della famiglia regnante.
Per certi versi l’esecuzione di al Jasser è stata simile a molte altre: la famiglia non è stata avvertita in precedenza dell’imminente esecuzione e non ha ricevuto il corpo dopo. Le autorità non comunicano nemmeno il modo in cui viene eseguita la condanna, ma quasi sempre si procede alla decapitazione con una spada, da parte di un boia, e in altre occasioni attraverso fucilazione. Testimonianze raccolte da Reprieve raccontano che quasi giornalmente ai detenuti in attesa di esecuzione viene letta una lista di nomi di persone che verranno uccise quel giorno: a quel punto i prigionieri elencati vengono prelevati dalle celle e portati altrove. La procedura crea un clima di terrore e un enorme stress quotidiano, che può durare anni.
Jeed Basyouni, responsabile di Reprieve per il Medio Oriente e il Nord Africa, ha detto alla BBC: «Sembra quasi che per loro non abbia importanza chi giustiziare, ma solo trasmettere alla società il messaggio che esiste una politica di tolleranza zero su qualsiasi questione stiano discutendo, che si tratti di proteste, libertà di espressione o droga». Basyouni dice anche che l’Arabia Saudita gode in questo momento di una «totale impunità» a livello internazionale.



