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  • Mercoledì 17 dicembre 2025

Il petrolio del Venezuela, al centro di tutto

Il paese ha le riserve più grandi al mondo e dipende totalmente dalle esportazioni, diventate un altro obiettivo degli Stati Uniti contro Maduro

La petroliera Skipper sequestrata dagli Stati Uniti il 12 dicembre 2025 (©2025 Vantor via AP)
La petroliera Skipper sequestrata dagli Stati Uniti il 12 dicembre 2025 (©2025 Vantor via AP)

Il blocco completo di tutte le petroliere sottoposte a sanzioni dirette o provenienti dal Venezuela, ordinato mercoledì dal presidente statunitense Donald Trump, può causare enormi problemi all’economia del regime di Nicolás Maduro. Non è ancora chiaro come verrà attuato, ma se davvero bloccasse le vendite di petrolio venezuelano di fatto quasi azzererebbe le entrate del paese. Il Venezuela dipende dal petrolio per finanziare la spesa pubblica e per comprare i beni che importa, a partire da cibo e medicine. La sua intera economia, peraltro già fragile e in profonda crisi, da decenni si basa unicamente sul petrolio.

Il petrolio ora è un obiettivo dell’amministrazione statunitense: sia per la sua centralità nel tenere in piedi il governo di Maduro, che Trump sta provando a rovesciare, sia per la possibilità di sviluppi commerciali vantaggiosi per gli Stati Uniti nel settore.

Dal 1976 il settore petrolifero è gestito da un’azienda statale, la Petróleos de Venezuela Sociedad Anónima (PDVSA). Gli Stati Uniti la sanzionano fin dal 2017, cosa che complica molto le esportazioni e i rapporti con persone e aziende statunitensi e quindi in ultima istanza mette in difficoltà il regime di Maduro. Con un’eccezione importante, in Venezuela continua a operare la multinazionale statunitense Chevron: ottenne una deroga alle sanzioni nel 2022, durante la presidenza di Joe Biden, che fu parzialmente revocata all’inizio del 2025 da Trump e riconcessa la scorsa estate. Le petroliere della Chevron non saranno sottoposte al blocco.

Fiamme in un sito di estrazione della cintura di Orinoco, in Venezuela, nel 2015 (AP Photo/Fernando Llano)

Il Venezuela ha le più grandi riserve di petrolio al mondo, circa il 17 per cento del totale: più dell’Arabia Saudita, oltre il triplo della Russia o degli Stati Uniti. Ricava attualmente circa 20 miliardi di dollari l’anno dal petrolio, che sono pochi per le quantità a disposizione. Nel 2012 le entrate valevano 120 miliardi, sei volte tanto: il crollo è la principale causa di una gravissima crisi economica, descritta dal Fondo Monetario Internazionale come «la più grave di un paese non in guerra» negli ultimi cinquant’anni. Tra le altre cose ha causato un esodo senza precedenti della popolazione, spesso diretta verso i paesi confinanti.

La drastica riduzione dei ricavi provenienti dal petrolio è dovuta a vari fattori, tra cui la cattiva gestione dei pozzi, la corruzione dilagante, lunghe dispute con le maggiori società petrolifere internazionali, le sanzioni statunitensi e il calo dei prezzi rispetto ai livelli molto alti del 2011-2013. Nonostante questo, il petrolio continua a costituire l’88 per cento delle entrate da esportazioni del paese (24 miliardi di dollari l’anno) e i prodotti legati al greggio, come quelli del settore petrolchimico, rappresentano la gran parte del restante 12 per cento.

La dipendenza totale da un’unica risorsa è un enorme problema, che gli economisti definiscono “malattia dei Paesi Bassi” (Dutch disease), un’espressione usata a partire dagli anni Settanta per descrivere ciò che accadde ai Paesi Bassi dopo la scoperta di grandi giacimenti di gas naturale.

Le entrate derivanti dallo sfruttamento di una risorsa naturale, qualsiasi essa sia, da una parte arricchiscono il paese che la possiede ma dall’altra favoriscono una dipendenza pigra, che non incentiva lo sviluppo di altri settori. Il grosso afflusso di valuta estera derivante dalla vendita di questa risorsa, tipicamente dollari statunitensi, porta poi la valuta locale ad aumentare di valore e causa a sua volta la perdita di competitività delle esportazioni di altri settori, provocando nel medio-lungo periodo un circolo vizioso a causa di una deindustrializzazione e di una dipendenza sempre più accentuate.

Il complesso petrolifero José Antonio Anzoategui, in Venezuela, nel 2024. (AP Photo/Matias Delacroix)

In Venezuela si estrae petrolio sin dagli anni Venti del Novecento, quando cominciarono a farlo grandi aziende statunitensi. La produzione toccò i massimi negli anni Novanta, quando era di 3-3,5 milioni di barili al giorno. Negli ultimi mesi è stata intorno agli 800mila barili al giorno. Il petrolio venezuelano è un petrolio definito “pesante”, “extrapesante” o “bitumico”. Significa che la gran parte del petrolio venezuelano, quello della cintura di Orinoco, è molto denso e ad alto contenuto di zolfo, e per questo più difficile da estrarre e da raffinare (oltre che più inquinante). Ci vogliono raffinerie apposite per trattarlo, che sono perlopiù negli Stati Uniti, sulla costa del Golfo del Messico o in Cina: per questo anche l’azienda nazionalizzata PDVSA è stata sempre dipendente da collaborazioni con le multinazionali statunitensi.

Secondo i dati di TankerTrackers.com, un sito indipendente che traccia le vendite di petrolio nel mondo, oggi l’81 per cento del petrolio venezuelano finisce in Cina, il 17 per cento negli Stati Uniti e il 2 per cento a Cuba.

Per la Cina, dal 2019 gli acquisti sono compiuti da aziende private (anche se in Cina queste sono spesso strettamente controllate dallo stato): nel 2024 la China Concord Resources Corporation ha firmato un contratto di 20 anni con investimenti da un miliardo di dollari per sviluppare le capacità estrattive. Per evitare le sanzioni, le petroliere dirette in Cina operano spesso attraverso una complessa rete di intermediari e società fittizie.

Fino al 2019 operava in Venezuela soprattutto l’azienda statale China National Petroleum Corporation (CNPC), in collaborazione con la PDVSA: poi ha interrotto le operazioni per evitare di essere accusata di violare le sanzioni internazionali. Si sono interrotti anche i prestiti che le banche statali cinesi concedevano al Venezuela, ottenendo in cambio petrolio come pagamento: in questo caso però il motivo è l’incapacità del Venezuela di ripagare i debiti.

La vendita a Cuba non fornisce grandi risorse al Venezuela. Al contrario, per l’isola il petrolio venezuelano è fondamentale non solo per le auto, ma soprattutto per alimentare centrali elettriche statali e generatori privati, che garantiscono livelli minimi di elettricità durante i frequenti blackout. Cuba paga la fornitura principalmente tramite “servizi”, come il sostegno al sistema ospedaliero venezuelano attraverso l’invio di medici specializzati.

– Leggi anche: I tanti problemi della rete elettrica a Cuba

Il petrolio che finisce negli Stati Uniti è quello estratto dalla Chevron, presente in Venezuela da un secolo e, come detto, rimasta nel paese quando le altre multinazionali se ne sono andate. Chevron è arrivata a estrarre 300mila barili al giorno di petrolio in Venezuela, quasi un terzo del totale del paese (ma comunque meno del 10 per cento della produzione complessiva dell’azienda). La licenza della Chevron prevede che circa il 50 per cento del petrolio estratto finisca alla PDVSA e quindi allo stato venezuelano. Chevron si definisce un «agente di stabilità», e Maduro dice che vuole l’azienda in Venezuela «per altri cent’anni». La sua presenza è invece stata criticata dall’opposizione.

Nicolás Maduro durante un comizio del 10 dicembre 2025 (AP Photo/Ariana Cubillos)

Lo sfruttamento delle enormi risorse venezuelane da parte di aziende statunitensi è un obiettivo dichiarato di Trump. In un discorso a una convention Repubblicana in North Carolina nel 2023 raccontò di come, durante il primo mandato, tentò di provocare la caduta di Maduro: «Quando ho lasciato la  presidenza, il Venezuela era pronto a crollare. Ne avremmo preso il controllo, avremmo ottenuto tutto quel petrolio, lo avremmo avuto proprio qui vicino». E la più recente National Security Strategy, il documento che definisce le priorità in politica estera della sua amministrazione, indica il controllo delle risorse energetiche e dell’emisfero Occidentale (cioè Nord e Sud America): togliere le risorse del Venezuela dall’influenza della Cina è parte di questo progetto.

La leader dell’opposizione venezuelana María Corina Machado sta spesso rimarcando le possibilità di affari che si aprirebbero per gli Stati Uniti con un cambio di regime. Machado, che ha anche vinto il premio Nobel per la Pace nel 2025, negli ultimi mesi è sembrata affidarsi quasi totalmente alla possibilità di un intervento statunitense per rovesciare Maduro e a novembre, parlando in teleconferenza a una riunione di politici e imprenditori statunitensi a Miami, ha detto: «Parlo di un’opportunità da circa 1.700 miliardi di dollari». Ha promesso di aprire agli investimenti privati e stranieri tutto il settore petrolifero, dall’estrazione alla raffinazione e alla distribuzione.

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