Un anno dopo la caduta di Assad la Siria è piena di speranze e dubbi
Il nuovo leader Ahmed al Sharaa ha promesso di pacificare e ricostruire il paese, finora con successi molto parziali

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Lunedì in tutta la Siria ci sono stati grandi festeggiamenti per il primo anniversario della caduta del brutale regime della famiglia Assad: il nuovo presidente, Ahmad al Sharaa, ha partecipato a una parata militare nella Moschea Omayyade, uno dei luoghi più importanti della capitale Damasco, mentre in città e nel paese venivano sparati fuochi d’artificio e sventolate le nuove bandiere nazionali. Dalle macchine per le strade si diffondeva musica festosa e i cartelloni appesi in giro recitavano slogan come «Un paese, un popolo» e «L’epoca buia è finita», ma il primo anno sotto il nuovo governo ha dimostrato chiaramente che il processo di ricostruzione in Siria è ancora molto lungo.
Il regime di Hafez al Assad e di suo figlio Bashar, durato 54 anni, fu segnato dalla repressione violenta di qualsiasi forma di dissenso: nel 2011 il malcontento sfociò in una guerra civile, che proseguì in maniera sanguinosa per 13 anni. Poi un anno fa terminò all’improvviso con la conquista di Damasco e la cacciata di Bashar al Assad, fuggito a Mosca, da parte del gruppo islamista Hayat Tahrir al Sham. Il suo capo era al Sharaa, che si fece rapidamente nominare presidente e abbandonò il nome di battaglia con cui era noto fino ad allora, Abu Mohammad al Jolani, e le vesti militari che indossava abitualmente in pubblico (ma se le è rimesse in occasione delle celebrazioni dell’anniversario).
Il nuovo leader del paese promise da subito di ricostruire la Siria e renderla pacifica e accogliente per tutte le numerose minoranze etniche e religiose che ci abitano, dopo decenni di violenza politica e settaria. Fin da subito è apparso un compito estremamente difficile, e molti aspetti della figura di al Sharaa, legata a milizie sunnite radicali, hanno sollevato qualche dubbio sulla sua adeguatezza sia fra i siriani che temono di finire marginalizzati sia nella comunità internazionale. Lunedì il presidente si è dimostrato molto ottimista: ha detto che «nessuna sfida, non importa se grande o pesante, ci ostacolerà» e che «nessun ostacolo ci farà desistere».
L’economia continua a essere in uno stato disastroso, ma c’è la speranza che la rimozione di quasi tutte le sanzioni internazionali possa aiutarla a ripartire (e quindi a riaccogliere i milioni di rifugiati scappati all’estero). A ottobre ci sono state le elezioni legislative, che il governo ha detto di non poter organizzare in maniera pienamente democratica dato il caos amministrativo in cui versa gran parte del paese: sono stati eletti principalmente uomini sunniti, nonostante gli sforzi del governo per l’inclusione di donne e minoranze.
Il dubbio più grande però riguarda probabilmente la protezione delle minoranze, che è un grosso tema in Siria: molti temono che il nuovo governo possa adottare politiche discriminatorie verso i gruppi etnici e religiosi non sunniti (l’Islam sunnita è la confessione maggioritaria in Siria). Nei mesi scorsi milizie sunnite legate al governo avevano compiuto violenze e si erano scontrate con diverse comunità non sunnite: con gli alawiti, nella provincia di Latakia, sulla costa; con i drusi, nella provincia meridionale di Suweyda a luglio, e con i curdi, che controllano una vasta zona nel nordest del paese, a ottobre. In tutto sono stati uccisi migliaia di civili, e le tensioni rimangono molto alte.
– Leggi anche: La nuova vita di Bashar al Assad a Mosca





















